Longuelo: dall’arte alla liturgia. In mostra l’Ultima cena di Maurizio Bonfanti

Ormai non temiamo la sete o la fame:
si fa nostra carne il corpo di Cristo,
e quando portiamo la coppa alle labbra
sentiamo il gusto d’un mondo che è nuovo. 

D. Rimaud, Gli alberi nel mare

 

A Longuelo, come da tradizione, l’avvio di un nuovo anno pastorale ha anche una connotazione. In Chiesa si espone un’opera che aiuta a introdurre il tema su cui si lavorerà lungo tutto l’anno. Seguendo l’indirizzo del vescovo Francesco, la riflessione di quest’anno sarà incentrata sulla liturgia, in particolare sulla celebrazione eucaristica. Nella comunità di Longuelo si è scelto di mettere a fuoco il fecondo legame tra Eucaristia e carità, suggerimento ben presente nella lettera che il vescovo ha indirizzato alle parrocchie. L’opera scelta è un’Ultima Cena che fa parte di un ciclo di otto tele dedicato alla Passione, Morte e Resurrezione di Gesù realizzato nel 2008 per la chiesa del Seminario di Bergamo da Maurizio Bonfanti. La scelta è ricaduta su quest’opera perché interpreta la tradizione in modo essenziale, restando fedele al testo evangelico. Il rigore e l’essenzialità che la caratterizzano portano quasi spontaneamente a concentrare lo sguardo sulla frazione del pane, il gesto consegnato da Gesù per fare memoria della sua Morte e Resurrezione e che crea la comunione. L’opera sarà esposta nella chiesa parrocchiale di Longuelo fino a domenica 19 ottobre. Ecco una semplice meditazione che accompagna il dipinto e se traccia un itinerario di lettura.

PANE OFFERTO E SPEZZATO

Un uomo nudo e accovacciato spezza il pane su un’improvvisata mensa a cui nessuno ha voluto sedersi. Il capo sprofonda tra le scapole. Non è dato di leggere l’espressione del suo volto. Bastano le sue braccia protratte nel gesto di offrire un pane. La figura affiora dal buio, una luce fioca ne tratteggia i lineamenti e ne rivela la nudità, rivelando un corpo segnato dalla totale spogliazione. È il Figlio che “spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini” (Fil 2,7). Il corpo è nudo perché quell’uomo è pienamente rivestito di umanità.

È un’immagine che evade la codificazione canonica. Non c’è la rassicurante immagine di Gesù seduto tra i dodici che alza gli occhi al cielo e traccia un segno di benedizione su vivande ben apparecchiate. L’opera non appartiene ad una certa iconografia ha anestetizzato il dramma della cena, del testamento incompreso dagli amici. L’autore non si accontenta di rifarsi alla tradizione ma compie un personale e autentico atto di esegesi attraverso la pittura.

L’uomo nudo che porge del cibo ad una tavola senza commensali è Gesù che nell’ultima cena ha preso nelle sue mani il pane, lo ha spezzato e in esso ha posto il suo mistero, il suo dono, il suo Vangelo. L’uomo della tela istituisce il memoriale del “corpo dato per voi” (Lc 22,19). I cristiani lo chiamano Eucaristia, che è memoriale di una vita non tenuta per sé ma donata, non salvata dagli altri ma offerta per la salvezza di tutti.

LA SCHIERA DELLE OMBRE

Invece di prendere parte al banchetto, i convitati fanno un passo indietro. L’amico che desiderava ardentemente mangiare la pasqua con i suoi, si trova solo a tavola. I dodici diventano ombre evanescenti. L’unico corpo di carne è quello di Gesù. Gli altri sono presenze distaccate, lontane e diafane, incorporee. Anche la partitura cromatica del dipinto suggerisce questa distanza: la figura di Gesù è accarezzata da una luce che scalda i colori; la schiera dei dodici è avvolta in una fredda nebbia grigiastra. La scena è giocata su un drammatico contrappunto cromatico, che acuisce la solitudine del Maestro.

I discepoli assistono in piedi … perché sia ancora più semplice fare un passo indietro, spaventati dal dono che si compie e da ciò che esige: “Fate questo in memoria di me”(Lc 22,19). È la sera dei cuori insicuri e del coraggio che manca. L’ultima cena è anche questo: è Giuda che mangia con l’uomo che ha venduto ai potenti, è Pietro che promette di non abbandonare il Maestro, sono i dodici che a tavola discutono su chi tra loro è il più grande. La sera della vita offerta per la salvezza di tutti è anche sera di solitudine e di abbandono.

Eppure Gesù affida loro il suo dono. E prima di lavare i loro piedi e sedersi a mensa, recita su di essi una intensa preghiera. Li affida al Padre e per loro chiede una cosa: l’unità, “che tutti siano una cosa sola” (Gv 17,21). E la grande preghiera di Gesù travalica i confini della tavola deserta dell’ultima cena. “Non prego soltanto per questi, ma anche per coloro che crederanno in me tramite la loro parola” (Gv 17,20). Nel momento di massima solitudine, il Figlio chiede al Padre che gli uomini vivano in comunione, nella stessa comunione in cui vivono Padre e Figlio. “Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola”(Gv 17,21). L’unità invocata da Gesù non si limita ai suoi dodici discepoli, ma abbraccia i confini di quella che sarà la Chiesa, popolo di Dio che si nutre al banchetto dell’Eucaristia. Dalla comunione di Dio nasce la comunione fraterna, che unisce nel vincolo della carità tutti i partecipanti alla stessa mensa.

UNA TAVOLA IMBANDITA

C’è una grande tavola che si estende a perdita d’occhio, così vasta da sembrare una piazza. È ricoperta da una tovaglia candida, che fa pensare ai lini che avvolgeranno il corpo di Gesù dopo la sua morte. Su di essa qualcuno ha apparecchiato umili stoviglie, che compongono una struggente natura morta. Cinque piatti vuoti pronti per essere riempiti e distribuiti e dar vita ad un banchetto: una grande tavola apparecchiata per gli uomini. L’aveva profetizzata Isaia: “Il Signore preparerà per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati” (Is 25,6).  È il grande banchetto dell’ultimo giorno, del tempo in cui il Signore “eliminerà la morte per sempre e asciugherà le lacrime su ogni volto” (Is 25,8). L’ultima cena e ogni eucaristia celebrata dalla Chiesa è anticipo del grande ultimo banchetto. Una tavola di fratelli che condividono in letizia il cibo, dove il vino rallegra la festa, dove non esisterà il pianto: questa è “la vita del mondo che verrà”.

CHI È MAURIZIO BONFANTI

Maurizio Bonfanti, figlio del pittore Angelo Bonfanti, è nato a Bergamo nel 1952. Inizia la sua formazione artistica presso il Liceo Artistico di Bergamo ed in contemporanea frequenta i corsi di acquaforte presso l’Accademia di Belle Arti di Bergamo. Dalla fine degli anni 70, per circa un decennio, lavora prevalentemente all’acquaforte, tecnica che poi abbandona per dedicarsi esclusivamente alla pittura. Come pittore, sperimenta tecniche diverse su tematiche come la corporeità, la natura, il paesaggio urbano. Ha realizzato alcuni cicli, legati in particolare al tema del Sacro. Dal 1978 espone le proprie opere in numerose mostre personali e collettive, partecipando a rassegne d’ arte nazionali e internazionali.