«Il saluto? È ancora un rito. Molto passa dal web, ma le relazioni si giocano sempre di persona»

Che cosa significa vivere in una comunità fraterna? Che cosa la rende davvero tale? Non sempre nelle parrocchie le persone hanno la possibilità di instaurare legami veri e profondi: molto spesso anche a Messa ci si sente “tra sconosciuti”. Intanto, in rete, i legami sembrano essere più “fraterni” che mai. Un paradosso? Una possibilità? Ne parliamo nel nostro dossier, il primo di una serie di approfondimenti che si legano alla lettera pastorale del vescovo e al nostro progetto video “#Community”.

Abbiamo intervistato Rita Bichi, docente di Sociologia presso la Facoltà di Scienze Politiche e Sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore sul tema della comunità fraterna e sull’importanza del saluto.

Nella società odierna ci si saluta ancora?
«Ci si saluta ancora, ma probabilmente il saluto assume forme diverse rispetto a quelle della società antica: ci si saluta in maniera rituale, in un modo che sfugge alla riflessione, quasi meccanicamente».

L’importanza del saluto si è dunque ridimensionata nella comunicazione interpersonale, secondo lei?
«Fa parte delle buone maniere e della buona etichetta: la mancanza del saluto, infatti, viene interpretata come segno di maleducazione. Le relazioni, però passano da qualcosa di più: con alcuni vicini di casa, ad esempio, scambiamo due chiacchere, li invitiamo a bere un caffé. Con altri, invece, riusciamo a scambiare solo il saluto e, in una conoscenza spersonalizzata tipica della città, spesso diventa l’unica forma di interazione. Detto questo, il saluto è ancora importante, tanto è vero che quando una relazione non funzione il saluto è tra le prime cose che vengono meno. In una ricerca di qualche anno fa sull’attenzione sociale, tra le varie modalità di comportamento quando ci capita di incrociare qualcuno che ci è antipatico, la mancanza del saluto emergeva come la principale forma che le persone utilizzano per evidenziare una distanza».

La nostra società è sempre più iperconnessa, viviamo costantemente nella piazza virtuale. In questo contesto, lo scambio e i rapporti umani dal vivo risultano ridimensionati?
«Su questo ho molti dubbi. La lettura corrente della relazionalità odierna ci dice che molto passa dal virtuale, ma occorre andare oltre a questo. È vero che sul tram tutti hanno lo sguardo sullo smartphone o sul tablet, ma si tratta pur sempre di una forma di connessione con altre persone, ancorché fisicamente distanti. Quando non c’erano questi dispositivi e tanto meno i social network, sul tram quasi tutti leggevano il giornale o un libro: è cambiata la forma, ma la sostanza è rimasta la stessa. La carta stampata era un compagno di viaggio che non interagiva, mentre con internet oggi abbiamo questa possibilità. Detto questo, lavorando molto a contatto con i giovani mi rendo conto che è vero che chattano e che passano molto tempo sui social network e su internet in generale, ma se devono affrontare un problema o vogliono semplicemente divertirsi lo fanno nella vita reale e non in quella virtuale. Second Life è scomparsa e questo vorrà pur dire qualcosa. Non corriamo dunque il rischio che tutto passi dalla virtualità, anzi: credo che l’ampia disposizione di questi mezzi riporterà in primo piano la relazione diretta e interpersonale».

Nella società odierna, come si declina secondo lei il concetto di comunità fraterna?
«La fraternità è un concetto che sento molto vicino, è uno dei concetti-guida della mia vita. Al di là dell’aspetto personale, credo che possa partire dal saluto stesso, che rappresenta una forma di inizio di un rapporto di fraternità. È comunque un concetto molto ampio, che riguarda la sostanza stessa della persona umana: si esplicita nella vita quotidiana e si costruisce attraverso la relazione interpersonale. Si rende dunque concreto anche alcuni piccoli gesti: stendere una mano, dare una carezza, mostrare gentilezza, aprire uno spazio al prossimo».

La fraternità è ancora un valore attuale?
«L’esempio di fraternità che ho più vicino è quello di San Francesco e ogni volta che mi capita di andare a Cortona,  in particolare al monastero Le Celle, trovo un luogo dove si respira fraternità. E’ qualcosa che sfugge alla razionalità, ma rappresenta un’apertura verso l’altro, un sostegno, un certo modo di vivere con gli altri. La fraternità sembrerebbe, però, un concetto non applicabile ad una società segmentata e divisa come la nostra: la sua attualità è più una speranza e una rinnovata esigenza, nell’ottica di un ritorno alla fraternità. E’ una necessità che ha bisogno di essere rinnovata».

Molto spesso si sente parlare di società liquida. I rapporti interpersonali come sono cambiati in questo contesto?
«Il concetto di società liquida ha ormai quasi 15 anni, ma è indubbio che alcuni processi siano andati in questa direzione: le istituzioni hanno meno peso sulla vita delle persone, alcune regole vengono disattese, mentre prima erano socialmente imposte. Le persone, oggi, hanno un ventaglio di possibilità e di scelte più ampio rispetto al passato e la rivoluzione digitale è stata molto importante in questo senso. Il cambiamento, però, non porta e non porterà mai alla liquidità: è una metafora che ci aiuta a capire, ma in una società la liquidità dove sta? Le persone continueranno ad avere legami, a rispondere a regole e a tessere relazioni, pur in maniera diversa rispetto al passato. Il dato che emerge, però, è che la società stenta a trovare istituzioni che funzionino oggi: la famiglia resiste a questo logoramento, non è morta, ma è cambiata profondamente. Ha preso forme diverse, ma è presentissima nella nostra società, forse più di una volta: è quasi più autentica, nel senso che rispecchia più realisticamente le relazioni che possono passare tra le persone. Detto questo, quello che stiamo vivendo è sicuramente un momento di transizione».