La Cina. Una nuova frontiera per la Chiesa?

Con indiscrezioni giornalistiche pilotate, gli apparati cinesi lasciano intravedere possibili aperture sulle due questioni controverse che condizionano la vita della Chiesa in Cina. Mentre Parolin, parlando dell’ostpolitik vaticana, ripete che i vescovi sono pastori e non antagonisti politici Nella “vexata quaestio” delle relazioni tra Cina popolare e Vaticano l’ultima mossa viene dai cinesi, e usa lo strumento delle «indiscrezioni» fatte filtrare sui media. Con un articolo apparso giovedì scorso sul quotidiano di Hong Kong Wen Wei Po – considerato espressione del governo cinese – una fonte anonima presentata come «vicina ai negoziati» sino-vaticani ha descritto i termini di un accordo che Pechino avrebbe proposto alla Santa Sede sulla controversa questione delle nomine dei vescovi cattolici nell’ex Celeste Impero, aggiungendo che la risposta è attesa per i primi mesi del 2015. I contenuti dell’articolo, corredati con dichiarazioni di esperti della politica religiosa cinese, è stato subito rilanciato anche online dal Global Times, la testata in inglese prodotta dal Quotidiano del Popolo, organo del Partito comunista cinese. Così il messaggio è arrivato forte e veloce a tutti i soggetti interessati, anche Oltretevere. Le indiscrezioni anonime del quotidiano di Hong Kong si configurano come un classico “ballon d’essai” lanciato a mezzo stampa. Già in altre occasioni i dirigenti dell’Amministrazione statale cinese per gli affari religiosi (Sara) avevano usato quel quotidiano per far filtrare i propri desiderata in merito ai rapporti sino-vaticani. Così ambienti cinesi interessati alla questione puntano a rendere più sollecite le mosse della Santa Sede – che finora non ha espresso smentite o conferme sui contenuti dell’articolo – e lasciano trapelare la propria impazienza a riprendere le trattative su punti concreti. Disseminando il messaggio anche di «segnali» da decifrare. Nell’articolo di Wen Wei Po si ricorda il gradimento registrato in Cina per le parole che Papa Francesco ha dedicato al «bello e nobile popolo cinese» sull’aereo che dalla Corea lo riportava a Roma. Viene sdrammatizzata anche la questione dei rapporti diplomatici che la Santa Sede intrattiene con Taiwan: anche su questo punto – si legge nell’articolo – i responsabili vaticani avrebbero in cantiere una soluzione accettabile da tutti, da mettere in campo quando si arriverà a parlare dei rapporti diplomatici diretti tra Pechino e il Vaticano. Sulla vicenda cruciale delle nomine dei vescovi, si accenna sommariamente a due possibili metodi su cui Cina e Santa Sede potrebbero accordarsi. Nel primo caso, i candidato selezionato dalla diocesi con le procedure «democratiche» attualmente in vigore, dopo aver ricevuto il placet della Conferenza episcopale cinese e essere stato comunicato agli uffici della Sara, verrebbe consacrato solo dopo aver ottenuto il consenso della Santa Sede. Nella seconda ipotesi, i nomi dei candidati presentati alla Santa Sede sarebbero due. E se nessuno di loro ottenesse il placet da Oltretevere, la procedura di selezione ripartirebbe da zero, alla ricerca di due nuovi candidati. Su questo punto nevralgico, il messaggio inviato da Pechino appare chiaro: la questione della nomina dei vescovi va ripresa in mano facendo tesoro delle ipotesi di lavoro emerse negli anni 2006-2009, quando le trattative bilaterali riservate tra Santa Sede e Pechino erano sul punto di concludere un accordo che avrebbe escluso il ripetersi in Cina di ordinazioni episcopali illegittime, cioè amministrate fuori dalla comunione con il vescovo di Roma. Nella Lettera rivolta ai cattolici cinesi nel giugno 2007, anche Benedetto XVI aveva auspicato «un accordo con il governo per risolvere alcune questioni riguardanti la scelta dei candidati all’episcopato». L’articolo di Wen Wei Po attribuisce poi al Vaticano il desiderio di allargare le trattative anche al destino degli organismi statali con cui il governo condiziona e pretende di dirigere «dall’interno» la vita della Chiesa, come l’Associazione patriottica del cattolici cinesi (Apcc) e il Comitato dei rappresentanti cattolici cinesi. La santa Sede –così si legge nell’articolo– pone interrogativi sulla necessità di perpetuare l’esistenza di simili strutture, e vedrebbe volentieri la loro abolizione. Il quotidiano di Hong Kong sottolinea che «ciò non sembra probabile», e che la ricerca di soluzioni condivise «presenta difficoltà». Ma ammette che, con le nuove condizioni della storia, «l’Associazione patriottica potrebbe cambiare il nome nel futuro. Potremmo anche avere un’altra organizzazione più adatta alle esigenze della nuova epoca». Nel «rilancio» realizzato dal Global Times, due studiosi cinesi avanzano obiezioni su uno scioglimento in tempi brevi delle strutture patriottiche, ma lasciano la porta aperta a una loro possibile mutazione. Shen Guiping, dell’Istituto centrale di studi sul socialismo, ipotizza una riforma dell’Associazione patriottica che la trasformi un «gruppo indipendente» con l’incarico di fare da «ponte» tra le autorità politiche e i membri della Chiesa. Mentre Yan Kejia, direttore dell’Istituto di Studi religiosi della Accademia delle Scienze sociali di Shanghai, valorizza «l’eredità storica» rappresentata dalla Associazione patriottica ma poi si limita a aggiungere che la sua abolizione «non dovrebbe essere posta come pre-requisito per stabilire rapporti diplomatici» tra Cina popolare e Vaticano. In sostanza, tutti i riferimenti agli organismi «patriottici” contenuti nei due articoli ammettono che il loro statuto e la loro funzione possono essere oggetto di discussione tra Santa Sede e Pechino. Una apertura che non trova precedenti nel linguaggio finora usato dai funzionari cinesi e dai loro portavoce ufficiali e ufficiosi. La premura nel voler garantire la sopravvivenza degli organismi «patriottici» riflette anche preoccupazioni molto concrete: tali apparati burocratici, capillarmente connessi con la complessa rete del potere cinese, impiegano migliaia di dipendenti pubblici e ogni ipotesi sul loro destino futuro va calibrata sui tempi lunghi. Anche la Lettera di Papa Ratzinger aveva ripetuto che la pretesa degli organismi patriottici di «porsi al di sopra dei vescovi stessi e di guidare la vita della comunità ecclesiale, non corrisponde alla dottrina cattolica». Ma non aveva indicato lo smantellamento dell’Associazione patriottica come condizione a priori per aprire il dialogo. Lasciando aperta la possibilità di una sua «riconversione» che tramite una revisione dei suoi statuti la trasformi in strumento di contatto tra Chiesa e governo. L’articolo del Wen Wei Po contiene una serie di aperture che da parte vaticana andranno quantomeno verificate. Intanto, nuovi interventi aiutano a cogliere il contesto in cui potrebbero futuri contatti tra Pechino e Santa Sede. In Cina, il generale Liu Yazhou, capo dell’ufficio politico dell’Università della difesa, ha appena espresso in termini sorprendenti la sua ammirazione per il cristianesimo, esaltandolo nel confronto con il buddhismo e le religioni d’Oriente: «Quando sono stato in America» ha raccontato Liu, noto a tutti per la sua vicinanza al Presidente Xi Jinping «mi sono seduto fuori da una chiesa per tutta una giornata e ho scoperto una cosa interessante: tutti entravano con una espressione preoccupata e cupa ed uscivano spiritualmente sollevati». Quello del Vangelo – ha notato tra l’altro il generale – è un Dio che «soffre mentre la gente non soffre. Invece gli dèi delle religioni orientali “se la godono” mentre il popolo soffre». Intanto, in un intervento appena realizzato sulla storia dei rapporti tra Vaticano e regimi comunisti dell’est europeo, lo stesso Segretario di Stato vaticano Pietro Parolin ha parlato dei criteri di selezione e nomina dei vescovi in termini che potrebbero essere facilmente applicati anche all’attuale condizione della Chiesa in Cina: «Secondo un luogo comune della critica all’Ostpolitik» ha detto il Segretario di Stato nella relazione preparata per un convegno sul cardinale Agostino Casaroli «la Santa Sede avrebbe commesso errori nella scelta dei vescovi, in sostanza perché i candidati non erano ferrei oppositori dei regimi. Ma la Santa Sede aveva obiettivi pastorali, non politici. Non desiderava vescovi che d’ufficio facessero i dissidenti, mettendo la politica al centro della loro attività, bensì uomini che fossero dei pastori. Un candidato andava valutato per aderenza al Vangelo e semmai per fedeltà a Roma. Occorrevano uomini spirituali, non personaggi con attitudini gladiatorie sulla scena pubblica. (…) Un buon vescovo lo si vedeva dall’azione pastorale, non dalle esternazioni contro i regimi, pur necessarie all’occorrenza».