«Siamo in politica non per fede ma a causa della fede». L’avventura di Mino Martinazzoli, cristiano pensante

«Sono un cattolico che diffida di quelli che nominano troppo Dio”». Cosi amava definirsi Mino Martinazzoli, uno dei protagonisti più importanti e più intelligenti della politica nazionale, scomparso tre anni fa. In queste ultime settimane, per un incontro che mi hanno chiesto in una parrocchia, ho ripreso in mano alcuni suoi testi e li ho ritrovati straordinariamente intriganti e fecondi.

UNO “STRANO DEMOCRISTIANO”

Ripercorrere la vicenda politica di questo “strano democristiano” (è il titolo di una lunga intervista curata da Annachiara Valle e pubblicata nel 2009) è riandare alle fonti della vicenda dell’impegno dei cattolici italiani nel dopoguerra. Con una consapevolezza: «L’aggettivo cattolico non è un aggettivo del politico. È più importante, è un aggettivo dell’impolitico. In politica il mondo cattolico non c’è. In politica ci sono i cattolici che scelgono di occuparsene, quelli che scelgono di non occuparsene e ci sono quelli che se occupano in un modo e altri in un modo diverso. E si qualificano così non perché sono cattolici».

Molti hanno salutato Martinazzoli con ammirazione definendolo, volta a volta, come un cattolico democratico, un democristiano anomalo, atipico, strano, geniale inventore di illuminanti figure retoriche. Ma lui confessava candidamente e con un po’ di civetteria di non saper neppure che cosa fosse il cattolicesimo democratico e si dichiarava semplicemente democratico cristiano, magari alla sua maniera e, comunque, cattolico liberale, in cammino nel solco fecondo di Manzoni, Rosmini, Sturzo, De Gasperi e di due grandi leader: Aldo Moro e Benigno Zaccagnini. «Siamo in politica» diceva Zaccagnini «non per fede, ma a causa della fede». Una fede intensamente vissuta, che ogni giorno si faceva cultura e poi, laicamente, politica. Martinazzoli sapeva che il cristiano può e deve fare politica – sapere e prassi che ha leggi e valori specifici che non possono venire posti a lato – solo se pratica buone mediazioni, che siano incarnazione dei principi o dei valori attraverso l’azione. In caso contrario si condanna o al tradimento dei valori oppure all’inefficacia politica. La costruzione della mediazione è il modo politico di mettere in pratica la necessaria coerenza con i valori cristiani. La legittima formulazione dei principi da parte dei Pastori non può sostituire il discernimento dei credenti che, in quanto cittadini tra cittadini, sono chiamati a tradurre questi principi, nella città di tutti, in formule giuridico-politiche, tenendo conto di una serie di fattori contingenti e nel rispetto della dialettica democratica con soggetti di diversa ispirazione. Nasce da qui – chiariva Martinazzoli – l’idea sturziana di «una laicità intesa non come separatezza, ma come coraggio di correre da soli il proprio rischio per non compromettere nel conflitto della politica l’altezza incalcolabile della fede religiosa».La religione non è una griffe da cucire su qualsiasi maglietta, diceva, e proprio per questo la presenza dei cattolici non si può ridurre a semplice ornamento della politica. Peraltro, la politica – sono parole sue – «è lotta di idee che si misurano e si scontrano con l’opacità e la refrattarietà degli interessi e del potere, idee che vincono e perdono e tornano a vincere in un confronto (…) che divide prima di unire, che non si esaurisce nella quiete ma che si rischiara per la luce di un orizzonte lontano». Perciò amava il confronto sereno delle idee, mentre rifuggiva lo scontro, la semplificazione brutale di chi pretende che in politica le buone ragioni e i torti stiano tutti di qua o tutti di là, con noi o contro di noi, e addirittura con me o contro di me.

FEDELE AL VANGELO, FEDELE ALLA COSTITUZIONE

Dotato di grande carisma, un’oratoria suggestiva e musicale, di carattere un po’ solitario, ricercatore sempre inappagato della verità, Martinazzoli è stato un vero incantatore di una generazione soprattutto di giovani cattolici. Ma tutte queste caratteristiche non rendono l’immagine dell’uomo politico rigoroso e severo, colto e innovatore, raffinato cesellatore di una idea del diritto e dello Stato dal valore umano. Parlando de “La libertà e la legge” ha attraversato territori poco esplorati della Bibbia e della Torah, sino a Kafka, a Chesterton e persino alla musica di Schomberg, ed evocando Rosmini arriverà a definire quello che per lui divenne un punto irrinunciabile, un principio: “Il diritto altro non è che la persona umana; non c’è distacco tra l’uno e l’altra, ma identità. Non la persona ha il diritto, ma la persona è il diritto”. Dopo averlo ascoltato alla radio, un giorno un detenuto scrisse alla RAI così: «Il ministro dice cose così sensate e sagge che fa sentire pienamente uomo, con la sua dignità, anche l’ultimo dei detenuti».

Di indole severa era capace di ironia e autoironia, come quando diceva che la riforma più importante fatta da Ministro della Giustizia era quella della riduzione della dimensione delle buste, sapendo che non era vero. In quel periodo infatti – tra gli altri provvedimenti – varò il nuovo processo accusatorio, le misure per la umanizzazione della pena carceraria, i nuovi trattati di estradizione (quello con gli USA ad esempio consentì i processi a Badalamenti, Buscetta e Sindona), al punto che Montanelli lo descriveva come il miglior ministro della giustizia dai tempi di Togliatti.

CONTRO LE FATTUCCHIERE DEL POLITICHESE

Negli ultimi anni, Martinazzoli avvertì acutamente il degrado della vita pubblica, e qualche volta ruppe il silenzio, denunziando «l’inaridirsi della speranza di fronte alla potenza della tecnica e dell’economia», e chiedendo a quanti ancora rifiutano la resa di «gridare dai tetti la nostalgia della politica e il coraggio della sua riconquista». «Parole senza pudore e senza qualità intasano la chiacchiera dei partiti. Le fattucchiere del politichese riempiono di nulla questa infelice stagione politica. Forse non vale la pena di entrare nel fuoco della controversia, che è un fuoco fatuo. Conviene chiedere soccorso alle risorse dell’ironia e della pietà. Ci aiutano a ritrovare la misura umana della politica e risarcire la sua incompetenza della vita».

Fino all’ultimo giorno della sua vita ha pensato e sognato la ricostruzione democratica del nostro Paese sulle solide fondamenta della nostra Costituzione. Da Rosmini aveva imparato che bisogna pensare in grande, e cioè in coerenza con la propria fede e i propri ideali: e questa coerenza confermò in maniera del tutto naturale nella vita privata e in quella pubblica, dall’amministrazione provinciale di Brescia, al Senato della Repubblica, alla Camera dei deputati, agli incarichi ministeriali. Come ha ricordato mons.Monari, vescovo di Brescia, durante l’omelia funebre: «Abbiamo parlato della città promessa da Dio, delle beatitudini che dirigono l’uomo verso questa promessa, della vocazione alta al servizio politico. Abbiamo parlato di Martinazzoli? Sono convinto di sì; ma ciascuno di voi, che lo avete conosciuto e stimato, può ritrovare nella sua memoria il segno che Martinazzoli ha lasciato e verificare questo segno sulla pagina di vangelo che abbiamo ascoltato. A me sembra che la parola di Dio, parlando dell’integrità dell’uomo, dello stile del cristiano, dell’amore come motivazione suprema di un credente abbia fatto il ritratto più bello di Martinazzoli».