Lidia Maggi, pastora battista: “Al di là delle differenze, i cristiani hanno riscoperto una comune fraternità in Dio”

Riguardo alla questione del giorno – quella di una violenza esercitata «in nome di Dio» -, occorre riconoscere che pure la storia del cristianesimo è stata segnata da terribili tensioni e conflitti. Forse, però, l’ascolto del Vangelo offre anche la possibilità di tornare sugli errori passati, di impegnarsi per superare antiche lacerazioni. Quest’anno, il motivo conduttore della «Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani» (da oggi a domenica prossima) è dato dalla richiesta che Gesù rivolge a una donna samaritana presso un pozzo di Sicàr, nel racconto evangelico di Giovanni: «Dammi un po’ d’acqua da bere». Tra le iniziative promosse dall’ufficio per l’ecumenismo della Diocesi e dalla Comunità cristiana evangelica di Bergamo (il programma completo può essere scaricato dal sito www.diocesibg.it), è in programma anche un incontro con la teologa e pastora battista Lidia Maggi, che lunedì prossimo alle 20 e 45, ad Albino, nella chiesa di San Bartolomeo, guiderà un incontro di preghiera e testimonianza sul tema «Con Gesù presso il pozzo».

Pastora Maggi, possiamo chiederle una telegrafica nota di autopresentazione? Lei è autrice di bellissimi volumi di commento ai testi biblici ed esercita il suo ministero presso la Chiesa cristiana evangelica battista di Varese…
«Per la verità, ho degli incarichi presso due Chiese di tradizioni diverse: sono pastora della comunità metodista di Luino e di quella battista di Varese. Tra le Chiese riformate, il dialogo ecumenico ha portato a un riconoscimento reciproco, al punto che un ministro – come nel mio caso – può prestare servizio anche in comunità che di per sé vengono da più tradizioni e che pure presentano delle differenze, sul piano ecclesiologico».

Lei è nata in una famiglia di confessione battista?
«Sì. In età adulta, ho scelto di diventare pastora e ho affrontato un curricolo di studi teologici che in linea di massima, sul piano delle materie, non differisce molto da quello di un seminarista cattolico».

L’ecumenismo passa, innanzitutto, per la conoscenza reciproca. Chi sono i «battisti»? Normalmente, questa denominazione viene associata alla figura del reverendo Martin Luther King, o dell’ex presidente americano Jimmy Carter.
«Comunemente, i battisti sono anche noti per il “gospel”, come loro forma di canto liturgico. Tra le Chiese protestanti, quelle battiste si connotano per alcuni tratti specifici, anche se non esclusivi. Il primo è un grande attaccamento al valore della libertà religiosa, considerata  quasi al livello di un principio teologico, nel senso che la fede deriva da una scelta, da una libera adesione dei singoli al messaggio di Cristo. Proprio per questo, il battesimo dei credenti viene amministrato in età adulta. Una seconda caratteristica delle Chiese battiste, strettamente connessa alla prima, è la rivendicazione di una netta distinzione tra lo Stato e le confessioni religiose: non è che queste debbano restare ai margini della sfera pubblica, ma occorre evitare sovrapposizioni tra il potere temporale e quello spirituale. In termini teologici, solo il Signore, e non il “principe di turno”, è a capo della Chiesa».

A sottolineare questo punto si è giunti per precise ragioni storiche?
«Certo. I battisti sono nati in Inghilterra, in un periodo successivo alla Riforma anglicana: inizialmente erano chiamati “separatisti” perché non accettavano che il re fosse a capo della Chiesa. Perseguitati per questo, in molti fuggirono nel Nuovo Mondo, e perciò la loro vicenda si è profondamente intrecciata con la storia nordamericana».

Alcuni affermano che negli ultimi decenni il dialogo tra le Chiese sarebbe proceduto troppo lentamente, sperimentando, in qualche caso, delle impasse. Lei è d’accordo?
«Sinceramente, a me pare che si sia fatta tantissima strada in un tempo relativamente breve, considerando che il dialogo ecumenico tra le diverse confessioni cristiane è iniziato circa cent’anni fa, e che solo in un secondo tempo vi ha preso parte anche la Chiesa cattolica. Non è che tutti gli obiettivi principali siano già stati conseguiti; la “settimana di preghiera”, però, è anche un’occasione per ritrovarci e per ringraziare il Signore per il cammino finora percorso insieme. Di fatto, siamo passati dall’inimicizia alla riscoperta di una comune fraternità in Dio. Pensiamo alla coraggiosa decisione di Papa Francesco, che nello scorso luglio si è recato in visita alla comunità pentecostale di Caserta: il senso di questo gesto è che dei fratelli e delle sorelle devono frequentarsi, pregare insieme, riconoscere di avere bisogno gli uni degli altri. Dobbiamo invocare il dono dell’unità, pur sapendo che divisioni e litigi hanno segnato la storia della Chiesa sin dagli esordi, come apprendiamo dalla lettura del Nuovo Testamento».

Non si tratta di guardare al passato, rimpiangendo una presunta unità poi perduta?
«Occorre piuttosto pregare perché questa unità ci sia data in futuro. Tornando alla precedente domanda, comunque, non direi che il dialogo ecumenico si sia arrestato, o “burocratizzato”: al contrario, solo ora iniziamo a gustarne i primi frutti. Già il fatto che io sia stata invitata a “spezzare la Parola” in una chiesa cattolica di Albino e che frequentemente tenga corsi nelle parrocchie, un po’ in tutta Italia, dimostra che siamo entrati in una nuova fase storica».

Possiamo chiederle di anticiparci, in parte, il senso della meditazione che lei condurrà lunedì? Qual è l’elemento più affascinante, nel racconto del colloquio di Gesù con la donna samaritana?
«Dal mio punto di vista, il fascino di questa storia evangelica consiste nel fatto che Dio vi appare in una situazione di “bisogno”: non solo perché Gesù chiede alla samaritana dell’acqua per dissetarsi, ma anche perché, attraverso il dialogo con la donna, egli giunge a esplicitare chiaramente il senso del suo ministero, della sua missione. Per la prima volta, nel Vangelo di Giovanni, Gesù parla di sé come un “io sono”, usando la stessa formula con cui nel Libro dell’Esodo Dio, dal roveto ardente, si era presentato a Mosè. In un certo senso, proprio grazie alla capacità d’interrogazione di una donna Gesù arriva ad applicare queste parole a se stesso; è come se Dio avesse deciso di condividere la nostra condizione a tal punto, da poter “imparare” mediante la frequentazione degli esseri umani».