Democrazia minima, democrazia low cost, democrazia a bassa intensità, democrazia sfigurata, videocrazia, vetocrazia… Ma la democrazia esiste ancora?

La democrazia, si sa, è in crisi da quando è nata e oggi è l’unica industria fiorente assediata com’è dall’antipolitica: termine passepartout, quest’ultimo, con il quale si largheggia intendendo anche nuove forme espressive rispetto ai canoni tradizionali della democrazia rappresentativa. Ci sono parole che, almeno fra gli addetti ai lavori, stanno diventando abituali: democrazia minima, democrazia low cost, democrazia a bassa intensità, democrazia sfigurata, videocrazia, vetocrazia, anche democrazie senza democrazia. Il sostantivo democrazia, proprio per la sua debolezza, ha bisogno di essere qualificato dall’aggettivo: nel bene e nel male. C’è anche la democrazia ibrida, descritta da Ilvo Diamanti, cioè la competizione fra diversi modelli, in cui in ogni caso prevalgono la competenza comunicativa e l’immagine del leader. Con frequenza si parla di democrazia del pubblico, teorizzata da Bernard Manin, dove il militante s’è declassato a spettatore in pantofole nel salotto di casa davanti alla tv. Si può pure morire di democrazia come ha ricordato, in un saggio che ha questo tiolo, l’ambasciatore Sergio Romano: «Credo che i mali delle democrazie europee siano, con i vecchi rimedi, irreparabili e che la democrazia nazionale, nella sua forma tradizionale, sia virtualmente fallita».  Non c’è ancora una grande disponibilità verso forme di autoritarismo più o meno soft, ma una certa simpatia verso gli uomini forti alla Putin questa c’è: rivolgersi per competenza a Matteo Salvini e a Marine Le Pen.

LA CRISI DELLA POLITICA E LE SUE INNUMEREVOLI RAGIONI

Bisogna aver presente la drammaticità della fase che stiamo attraversando, appesantita dalla Grande Crisi, in Paesi spaventati in piena mutazione dove bisogna misurarsi con il senso di paura non per cavalcarla ma per costruire fiducia. Più facile a dirsi che ad attuare. La cattiva politica e la recessione-deflazione congiurano per uno stato d’indignazione permanente che da anni produce cervelli fatti in serie di capipolo e di imprenditori dello scontento: l’antipolitica, o comunque quel sentimento che intendiamo con questo termine, è un formidabile deposito di umori anti sistema e talvolta anti parlamentari. Sotto traccia si fa strada l’idea della smobilitazione collettiva, di un disagio della democrazia: troppo lenta e complicata, incapace di decidere. A problemi veri si risponde con la scorciatoia di soluzioni sbagliate e non realistiche: in fondo la moralità della politica sta in gran parte nella sua efficacia. Ormai sappiamo tutto, o pensiamo di saperlo, delle cause dell’antipolitica. Conosciamo i guasti della bassa cucina, come la corruzione, i ritardi nelle riforme, un livello non esaltante (con le dovute eccezioni) del ceto politico, ma anche i limiti dell’opinione pubblica perché un giorno o l’altro ci sarà il problema di come salvare la democrazia dalla Rete, cioè dalla democrazia elettronica. Poi ci sono le questioni alte: la fine di alcuni storici ideali politici, dei partiti di massa, la colonizzazione della politica da parte dei media, la fatica di interpretare le correnti profonde della società italiana. Un professionista della politica, Luciano Violante (“Il primato della politica”, Rubbettino), ha scritto così: «Negli ultimi decenni il potere, prevalentemente nelle forme del potere personale, ha preso il sopravvento sul servizio perché i partiti non riescono più a portare alla politica i bisogni della società e alla società il significato delle scelte della politica. Il venir meno di questa connessione tra società e politica ha indebolito la dimensione del servizio e ha rafforzato quella del nudo potere, il potere che serve se stesso e non i cittadini».

IL CATTOLICESIMO POLITICO E RENZI

Proprio la frattura fra società e politica dovrebbe essere una delle questioni a preoccupare il cattolicesimo politico, tanto più che il mondo evolve verso criteri difficilmente digeribili da questa cultura. La verticalizzazione del potere, l’indirizzo politico attivo che favorisce i governi rispetto ai parlamenti, il leaderismo estremo, l’esaurirsi del dialogo e della mediazione consensuale come standard della competizione: tutto questo è spiazzante per una certa sensibilità cattolica. Ha colpito che sia stato proprio un cattolico, per quanto non identitario, come Renzi ad archiviare la concertazione e ha colpito soprattutto il sostanziale silenzio dei cattolici (con l’eccezione del sociologo Giuseppe De Rita, fondatore del Censis). Se sul merito il premier può avere buone ragioni, il principio tuttavia andrebbe discusso: il circolo virtuoso fra corpi intermedi e istituzioni, fra società e politica, non era fino a ieri nel kit della cultura cattolica? Dunque, stiamo penetrando in una terra sconosciuta?

LE DEMOCRAZIE ACEFALE. BANCHIERI E MAGISTRATI

Una pista l’ha offerta in questi giorni, sull’ultimo numero del “Mulino”, il politologo Francesco Tuccari quando, nell’affrontare i nuovi meccanismi di formazione del consenso e della leadership, ha riscontrato una saldatura fra il moltiplicarsi delle forme surriscaldate di leaderismo populistico-plebiscitario e la progressiva erosione della sovranità degli Stati nell’era della globalizzazione e nel contesto dell’Unione europea. Con un corto circuito, che per lo studioso è il punto essenziale: mentre il populismo produce capi carismatici persino con una pericolosa presunzione d’onnipotenza, il secondo processo conduce a democrazie acefale perché «assoggettate in misura sempre più ampia agli imperativi in qualche modo “oggettivi” dettati di volta in volta dallo spread, dalle grandi agenzie globali di rating, dalle oscillazioni degli indici di Borsa, dalle procedure e dai regolamenti di tecnoburocrazie ormai potentissime». Basti pensare che in Europa ci sono solo tre soggetti di governo generale: Banca centrale, Corte europea dei diritti dell’uomo e Corte di giustizia dell’Unione europea. Come a dire: la “regola d’oro” della governance è in mano a banchieri e magistrati. E ancora: le elezioni europee trovano il loro limite nella circostanza che le politiche comunitarie sono prestabilite dai trattati. Poteri, quelli della finanza, impersonali e non soggetti al controllo degli elettori. La finanza, quindi, è la più grande forza politica del nostro tempo e con il populismo mette in trappola la democrazia: «La potenza – ha scritto Tuccari – dell’economia e della finanza globale, sfuggita alla gabbia in cui gli Stati erano riusciti per qualche tempo a rinchiuderla, ha contribuito in maniera determinante a ridimensionare drasticamente la loro capacità di esercitare una piena ed effettiva sovranità». Mentre lo Stato non è più in grado di controllare i fenomeni global, l’economia si sottrae e influenza le scelte nazionali e si modifica la concezione del mercato come fattore funzionale al bene comune e alla democrazia. Il rischio che già si avverte è che un po’ tutti (elettori, partiti, leader, Stati e governi) siano espropriati di qualsiasi potere effettivo. Siamo oltre la semplice idea della politica ridotta a mera amministrazione e la duplice affermazione del populismo e della tecnocrazia dice che stiamo entrando in una dimensione inedita della democrazia, dove consenso e potere coincidono sempre meno e dove non ha più cittadinanza un leader pienamente sovrano. Non pare sia una febbre passeggera della democrazia, ma un trend di lungo periodo con il quale dovremo convivere.