Dopo un viaggio in Etiopia. Sguardo su quella Chiesa. E sulla nostra

Foto (Cominelli): una festa popolare della Chiesa ortodossa

Chi attraversi con il passo leggero del turista le bellezze culturali e naturali del Nord dell’Etiopia, da Addis Abeba fino ai confini con l’Eritrea, non può non notare la presenza onniavvolgente della religione, nella forma della fede copto-ortodossa. Secondo il censimento nel 2007 il 43,5% (oltre 32 milioni di abitanti) si è dichiarato di fede ortodossa, il 33,9% musulmano (più di 25 milioni), il 18,6% protestante (poco meno di 14 milioni), il 2,6% animista. La presenza cattolica è sotto l’1%. Restano i pochi Falashà, una minoranza ebraica. Vi è anche il curioso culto Rastafari, dal nome originario di Hailé Selassié, un mix afro-giamaicano di riti cristiano-animisti, con accompagnamento di musica reggae.

SOCIETÀ, CHIESA, POLITICA

Il rapporto tra religione, stato e politica è biunivoco fin dall’introduzione del Cristianesimo in Etiopia. Attorno alla chiesa, in ogni villaggio, si concentra la vita associativa delle persone: la chiesa è religione, festa popolare, riti sociali di riconoscimento reciproco, amministrazione. Essa è centro di identità e di civilizzazione elementare. La Chiesa ortodosso-copta si pone come punto di intersezione tra una società tuttora assai arretrata (l’Etiopia è uno dei Paesi più poveri del mondo, 171° su 182 nella classifica dell’Indice di Sviluppo Umano) e la politica, da cui ottiene riconoscimento del proprio potere economico e sociale nelle campagne. Sorge inevitabile la domanda: quanto è responsabile direttamente la Chiesa etiopica dell’arretratezza culturale e civile del Paese? La gerarchia e i sacerdoti continuano ad opporsi alla diffusione dell’istruzione elementare. Su quattro/cinque figli, solo uno può permettersi di andare a scuola, pagata dalla famiglia.

L’ITALIA, FINE OTTOCENTO

In realtà, questo accadeva anche in Italia, alla fine dell’800. Ma mentre i vescovi italiani si opponevano, non tutti, alla diffusione dell’istruzione di base, gli ordini religiosi nati nella seconda metà dell’800 facevano esattamente l’opposto. Si pensi ai salesiani e non solo. Costretto a fare i conti con la modernità, sia pure a malincuore – il titolo completo della Rerum Novarum del 1891 è, appunto, Rerum novarum cupiditas, cioè la critica del desiderio smodato di novità – il cattolicesimo europeo si è confrontato duramente con i movimenti sociali insorgenti, con l’industrialismo, con le nuove filosofie. Non così il cristianesimo ortodosso, sia quello classico sia quello copto. Esso pare ancora presentarsi quasi come il cemento conservatore di una società immobile, nella quale i contadini sono a tutt’oggi l’84% della popolazione, schiavi dei ritmi biologici degli animali, esposti alle carestie, senza aratri meccanici, senza irrigazione. Vero è che all’avvento del “socialismo etiopico” di Menghistù, almeno una parte della Chiesa si dichiarò favorevole: prometteva una rivoluzione nella vita delle campagne. Ma la quasi subitanea degenerazione polpottista del regime, costrinse quella parte ad arretrare. Pertanto, oggi la Chiesa etiope pare, per un verso, rispecchiare l’arretratezza dello sviluppo economico e civile e, per l’altro, fornirne la giustificazione ideologico-religiosa.  Essa difende guardinga il proprio potere economico e culturale, offre alla politica la garanzia di stabilità.

UNA SECOLARIZZAZIONE VIOLENTA

Fino a quando questo patto tacito possa reggere è difficile prevedere. In alcune grandi città, a cominciare da Addis Abeba, i processi di urbanizzazione disperata e di fuga dalla vita opprimente dalle campagne stanno generando una secolarizzazione violenta, analogamente a quanto accade in alcune metropoli d’Africa. Le generazioni più giovani incominciano a usare i cellulari, Internet, a parlare con il mondo. I missionari protestanti e cattolici – cappuccini, comboniani e Pie Madri della Nigrizia – ramo femminile dei comboniani – stanno costruendo la rete informale del Welfare. Testimoniano non con le dispute teologiche sul monofisismo o sul primato di Roma, ma con l’attenzione allo sviluppo umano che la religione può essere una pratica di liberazione.