Pastori e gregge. A proposito del laico nella Chiesa

«Ci sono due specie di Cristiani. Vi sono coloro che attendono alla liturgia e alla preghiera e sono dediti alla contemplazione: ad essi si addice star lontano dalla confusione delle cose temporali. Questi sono i chierici. Klêros infatti vuol dire “parte scelta” (…). C’è un’altra specie di cristiani: i laici. Laos infatti vuol dire “popolo”. Questi possono possedere beni temporali, possono sposarsi, coltivare la terra, occuparsi della giustizia civile, fare offerte e pagare le decime: e così potranno salvarsi, se faranno il bene ed eviteranno i vizi». Così si legge del Decreto di Graziano, una raccolta giuridica della chiesa medievale. Una prospettiva “duale” che, nella Chiesa, è durata a lungo. Ancora nel 1906 nell’enciclica Vehementer nos stava scritto: «La Chiesa è per sua natura una società ineguale, cioè formata da due categorie di persone: i Pastori e il Gregge […]. E queste categorie sono così nettamente distinte tra loro […] che la moltitudine non ha altro dovere che lasciarsi guidare e di seguire come un docile gregge».

Il peso innegabile di questa storia ha fatto in modo che ogni volta si dica “Chiesa” i più pensino al papa, ai vescovi, al parroco. Nel pensiero comune la Chiesa si identifica con il clero.

LA QUESTIONE DEI LAICI È AL CENTRO DELLE NOSTRE SFIDE PASTORALI

E i laici? Ne fanno parte? Si e no. SI preferisce pensare ad essi come “fedeli”, non un soggetto nella Chiesa, ma piuttosto l’oggetto delle cure del clero: amorevoli, certo, ma tali da mantenere il laico in una perenne condizione infantile. Eppure, anche sotto questo aspetto, il Concilio Vaticano II ha rappresentano qualcosa di nuovo. Certo, occorre sfatare il luogo comune per cui ancora oggi ci si riferisce al Vaticano II come al “Concilio dei laici”. Si tratta di una suggestione assolutamente infondata, in quanto dai testi promulgati non emerge un disegno compiuto e organico sui laici sotto il profilo dottrinale e pastorale, né del resto i Padri conciliari si prefissero un tale obiettivo. Semmai è inevitabile che il ricorso alle categorie di “popolo di Dio” e di “comunione” spingessero a privilegiare una visione partecipata – in virtù del battesimo – del corpo ecclesiale. Resta quindi indubbio che la questione dei laici stia al centro delle sfide pastorali che si trovano ad affrontare le nostre comunità parrocchiali. La loro innegabile valorizzazione è avvenuta soprattutto nei termini della loro attiva partecipazione al ministero della Chiesa in qualità di catechisti, di animatori liturgici, di operatori nel campo dell’assistenza. Il rischio è che questo loro impegno dentro la Chiesa – che è comunque indispensabile ed esige anzi un lavoro formativo ancora più preciso – sia visto ancora prevalentemente in termini di collaborazione e di supplenza all’azione del prete. Questa prospettiva favorisce e perpetua un nuovo clericalismo e non permette di costruire la parrocchia come una comunità di battezzati, di cristiani.

OLTRE IL LINGUAGGIO DELLA TRIBÙ

Lo vedo spesso girando per la diocesi. Quanti laici – donne e uomini – vivono con generosità il loro servizio alla comunità cristiana! Ma quanto poco sono valorizzati per ciò che sono veramente. Eppure – e non sono solo i numeri oramai a picco delle vocazioni sacerdotali – sempre più mi convinco che il Vangelo sarà comunicato quanto più sarà narrato da laici adulti nei confronti di altri laici adulti. E’ evidente che il parroco resta il primo responsabile dell’annuncio del vangelo nella comunità, ma è impensabile che ne sia l’unico o il principale. Egli ha necessità di adulti, singoli e in coppia, che siano aiutati ad animare altri adulti. Va rafforzata dunque la scelta di una Chiesa ministeriale animata dalla fiducia nei confronti dei ministeri laicali. Solo cosi si può passare da una pastorale di conservazione ad una pastorale missionaria. Come sostiene Biemmi: «E’ difficile pensare che persone formate in una cultura ecclesiale/ecclesiastica, nel bene e nel male segnate da un linguaggio da iniziati (il “linguaggio della tribù”), siano in grado di raggiungere gli uomini e le donne nel cuore della loro profanità». Un laico credente può farlo. Questo rende più urgente, attualmente, per i nostri preti, il compito di formare i laici chiamati ad annunciare il Vangelo.

Non solo. I laici a questa comunità cristiana affaticata hanno una parola e una presenza singolare e specifica da offrire: quella di custodire e servire la “laicità”, la “secolarità” della Chiesa intera, il suo essere nel mondo. La missione cioè di richiamare tutti al dovere di ricevere dal mondo i linguaggi del tempo e delle culture per poter meglio annunciare e comprendere il vangelo. I laici annunciano il vangelo la dove vivono, in parole e opere; vivono molteplici forme di ministerialità coscienti e forti del loro munus profetico, regale, sacerdotale dato dal battesimo; contribuiscono secondo il loro specifico alla comprensione del vangelo nella Chiesa e alla vita del noi ecclesiale.
Si tratta di crederci sul serio e cominciare a sperimentare quello che tra non molto saremo obbligati a fare. Non c’è altra strada.