Quante bufale su Facebook: il sensazionalismo è social

Prendi una fotografia a caso. Modificala, cerchia un particolare in rosso, inserisci una freccia e un testo, meglio se sensazionalista. «Guarda qui, non ci crederai mai!», oppure «Noi abbiamo pagato e guarda che cosa ne fanno dei nostri soldi!». Una volta che hai confezionato l’immagine, spammala sui social, sui blog, ovunque. Fatto? Voilà, hai confezionato un piccolo tassello del fenomeno virale più fastidioso – e dannoso – del mondo 2.0: le bufale.
Internet ha profondamente cambiato non solo il modo di relazionarci con gli altri, ma anche quello con cui si diffondono le notizie: l’informazione è diventata veloce, immediata, potenzialmente infinita. Negli anni scorsi l’apoteosi del web ha spinto gli addetti ai lavori a parlare della nascita di un’informazione globale e sempre verificabile: insomma, una specie di mare magnum della verità in cui navigare a vele spiegate.
Peccato che poi la realtà – quella vera, non virtuale – si sia rivelata un po’ meno scontata. E non sempre così luminosa. Se da un lato infatti è vero che la rete fornisce infiniti spunti e fonti a cui attingere per fare un’informazione corretta e documentata, dall’altro capita anche che la mole di nozioni sia tanto immensa da rendere estremamente arduo distinguere ciò che è affidabile da ciò che non lo è, ciò che è documentato da ciò che è manipolato, ciò che è reale da ciò che invece è una bufala. E se il fenomeno riguardasse soltanto la cosiddetta massa che popola i social senza infamia né lode, lo si potrebbe forse definire l’evoluzione tecnologica delle «chiacchiere da bar»: il problema è che spesso sono gli stessi addetti all’informazione o alla cosa pubblica a lasciarsi – più o meno in buona fede – ingannare, e quindi a diventare complici della circolazione di emerite stupidaggini. Con buona pace dell’informazione documentata.
Gli esempi non mancano e riguardano nella stragrande maggioranza dei casi presunti “fatti” che si agganciano alla pancia della gente, che riguardano l’attualità e nello specifico la sua declinazione più populistica. Si pensi ad esempio alle infinite bufale sui migranti – «gli immigrati che buttano il cibo», «gli immigrati che sfasciano gli edifici dove sono accolti», «questi immigrati hanno distrutto la statua della madonna nella parrocchia di…» e via dicendo – correlate da fotografie di cibo buttato che, per quanto ne sa l’utente, potrebbero pure essere state scattate fuori da un ristorante, oppure riguardanti paesi, parrocchie o luoghi che si rivelano inesistenti e inventati di sana pianta. Leggerezza, o precisa volontà di manipolare “il gregge”? La domanda è lecita.
Le vicende di cronaca recenti hanno dato ampio spazio al proliferare di questo tipo di informazione fuorviante. Si pensi ad esempio al caso della liberazione di Greta e Vanessa, le due cooperanti rapite in Siria: una vicenda internazionale riguardante teatri di guerra e contesti geopolitici molto difficili e delicati, di cui solo una ristretta cerchia di professionisti sarebbe in grado di parlare con cognizione di causa. Invece a cavallo della liberazione l’intero web si è popolato di esperti di diplomazia internazionale, analisti militari, opinionisti. La conseguenza? Crescita a dismisura della quantità di informazioni fasulle e parziali sulla vicenda e sui soldi del presunto riscatto, nonché di fotografie palesemente false, come quella della guerrigliera curda di Kobane armata di bazooka spacciata per una delle volontarie e abbinata al testo «12 milioni di euro, e questa era in Siria a fare la guerra». Fino ad arrivare alla gaffe di Maurizio Gasparri che, dopo il tweet sui presunti rapporti di Greta e Vanessa con i terroristi, ha candidamente ammesso di aver trovato la “notizia” su un sito web dal nome «Piove Governo Ladro». Proprio una garanzia di affidabilità.
I casi sarebbero infiniti e sono nate anche apposite pagine per smascherare le bufale che impazzano sul web (come ad esempio «Bufale un tanto al chilo»), ma il fenomeno diventa ancora più preoccupante se si pensa che, dopotutto, basterebbe fare ciò che il web forse ci ha disabituati a fare: approfondire. Anche solo un pochino. Basterebbe San Google, ma evidentemente è troppo faticoso.