Carnevale. Ma oggi chi è il tiranno da uccidere?

Una volta si diceva “Semel in anno licet insanire”: una volta all’anno si può impazzire. Oggi però il Carnevale non è più neppure questo. Molti aspetti di questa festa si sono smarriti nel tessuto del tempo, nella confusione consumistica che tende a moltiplicare le ricorrenze.
Se alle origini era rovesciamento, discontinuità, un intervallo senza regole in cui i rapporti di potere potevano essere mandati a gambe all’aria, oggi anche i carri allegorici dei grandi carnevali tradizionali, sempre più raffinati e accurati, sembrano aver perso il loro mordente: resta lo spettacolo, il richiamo turistico. Neppure la dimensione ritmica e rituale del corteo ci dice più molto: la nostra partecipazione (se e quando c’è) è piuttosto formale. Il Carnevale è una festa tra tante, ignorata da molti, attesa e presidiata soprattutto dai più piccoli, meno trasgressiva della sua brutta copia di derivazione americana, Halloween.

L’etimologia della parola, ce lo ricorda Pietro Piro, ricercatore dell’Università di Enna Kore-Uned Madrid in un interessante saggio sul senso del Carnevale nella società dello spettacolo, è incerta: che venga dal latino carne-levàmen (togliere la carne), oppure dal latino carnuàlia (giochi villerecci che si facevano saltando sugli otri) o dal latino càrrus navalìs (carro navale-nave su ruote), il termine ci dice comunque che esso rappresenta un momento di novità rispetto al tempo ordinario. Un momento in contrasto con la fatica del lavoro, con lo scorrere del tempo, la paura, l’ordine, il risparmio. Un momento di abbondanza in contrapposizione a momenti di scarsità, e in particolare alla sobrietà, al raccoglimento, alla riflessione della quaresima? Anche in questo però oggi il confine non è poi così netto: sono cambiate per esempio le forme del digiuno (qualcuno, negli ultimi anni, ha proposto timidamente anche quello digitale). E i dolci non compaiono sulla tavola soltanto a Carnevale.
La nostra vita si è sganciata – per la maggior parte – anche dai ritmi della natura, se pure le condizioni meteorologiche restano un argomento di conversazione molto gettonato: ma insomma, non festeggiamo più per la fine dell’inverno e la vita che germoglia sotto la neve. Le maschere? L’idea di calarsi, per qualche tempo, nell’identità di un altro? Sono più famose, oggi, quelle di Anonymous, che si spostano come ombre nelle profondità del web.
Allora è festa, ma di che? Carnevale, sembrerà strano, torna ad essere un’occasione in tempi in cui gioco e spensieratezza cominciano a scarseggiare, in cui le giornate scorrono troppo veloci e tutte uguali, senza pause apparenti, in cui lo spettacolo occupa le case attraverso i molti schermi che popolano la nostra vita e colonizza l’immaginario, ma senza divertirci davvero; un’epoca in cui l’individualismo spinto che si è consolidato negli ultimi cinquant’anni ci ha resi tutti troppo soli. Non è un caso, forse, che a cogliere questa occasione prima e più di tutti gli altri siano parrocchie e oratori: luoghi in cui, più che puro intrattenimento (lo raccontiamo altrove in questo dossier), la festa diventa di nuovo allenamento alla costruzione di relazioni, per essere non atomi, ma comunità. La festa si prepara, si inventa, si vive insieme, mettendo in gioco le capacità di ciascuno, trovando nuovi legami tra le generazioni, creando luoghi in cui è ancora bello raccontarsi storie, e in questo modo si trasmette valore.
Non è un caso neppure che nella generale assenza di contenuti (oltre che di fondi) anche la festa del Comune di Bergamo quest’anno abbia preso una strada diversa, quella della partecipazione: creare legami, in questo caso tra le istituzioni culturali presenti sul territorio, unite, stavolta, nella riscoperta del Teatro Donizetti, luogo dove le maschere, in molti modi, prendono vita, come patrimonio vivo di tutti. Segni di un fermento che – in mezzo a tanto grigiore – gettano un po’ di luce sul futuro.