«Diventare i loro amici, amarli e farsi amare, portarli alla virtù, e dalla virtù e dalla buona volontà ad ogni verità, vivere per salvarli. Ecco il programma: amore, amore, bontà, bontà». Queste parole sono state pronunciate da Charles de Foucauld che, con il suo operato e il suo stare vicino al più piccolo e al più povero, ispirò, negli anni ’20, la nascita di alcune fraternità, come amano definirsi, tra cui i “Piccoli Fratelli del Sacro Cuore” e le “Piccole sorelle di Gesù”.
Nella cornice del “Progetto Terra Santa” – promosso dalle Acli con un bel calendario, ricco di incontri e di appuntamenti in collaborazione con la diocesi di Bergamo e l’Ufficio pastorale sociale e del lavoro – ascoltiamo le riflessioni di suor Maria Chiara Ferrari, responsabile generale delle Piccole Sorelle di Gesù di Charles de Foucauld, presso la parrocchia di Santa Lucia. «Siamo duecento fraternità sparse in settanta diversi paesi nei 5 continenti, con un’attenzione particolare per l’Asia e l’Africa» racconta suor Maria Chiara: «Le fraternità sono formate interamente da sorelle del luogo che hanno scelto una vita di povertà accanto ai più deboli: praticando i loro mestieri, vivendo con loro e come loro. Cercando di raggiungere le fasce più povere anche quando agiamo nei Paesi più ricchi dell’Europa o dell’America. Allo stesso modo siamo là dove ci sono conflitti o guerre, perché sappiamo tutti quanto impoverisce la guerra. E allora abbiamo comunità in Niger, in Afghanistan, in Palestina, in Iraq. La nostra non è un’ascesi fine a se stessa ma spinta dalla volontà di raggiungere le persone che vivono in povertà. Possiamo dire che l’appartenenza a queste realtà povere è la nostra clausura, ma senza escludere nessuno perché il Vangelo è per tutti».
Suor Maria Chiara Ferrari ha vissuto per diversi anni in Palestina ed Israele a contatto con situazioni di guerra e di povertà ed è stata responsabile delle fraternità che vivono nei Paesi del Medio Oriente. Ci parla della sua esperienza e delle altre “piccole sorelle” che vivono in questi Paesi: «Ho vissuto in Palestina per circa 18 anni ed è stata sicuramente l’esperienza più forte per me. Ho visitato la Siria, il Libano, l’Iraq e poi ancora il Marocco e l’Egitto. Le nostre sorelle vivono nel cuore delle città, a contatto con la guerra e le sofferenze. È un’enorme responsabilità ma è soprattutto sinonimo di un gran coraggio, oltre alla forza del Signore, che abita in loro» e prosegue «Le difficoltà – oltre alle questioni politiche che interessano i mass media – sono quotidiane: come vivere? Come scaldarsi? Cosa mangiare? Nessuno di noi è un eroe ma portiamo dentro la forza del Signore e cerchiamo di far sentire la grandezza di Dio proprio nei luoghi della sua maggiore negazione».
Suor Maria Chiara si sbilancia e non nasconde le responsabilità della politica occidentale che si è servita della matrice islamica per mantenere un medio Oriente spezzettato ed impotente: «In Iraq questo è sotto gli occhi di tutti: dopo la caduta di Saddam Hussein, il Paese è stato tripartito e le comunità cristiane che contavano quasi 2 milioni di persone, oggi faticano ad arrivare alle 200 mila unità. Questa è una grande perdita perché la comunità cristiana era l’unica realtà extra-islamica in medio Oriente e, ora che si sta dissolvendo, svanisce anche la possibilità di un dialogo interno e con esso un pezzo di storia di questi Paesi».
L’immagine che, da più parti, ci viene fornita è quella di un Islam aggressivo e spietato. Ma com’è davvero per chi ci vive? «Io ho conosciuto l’Islam del vicino di casa» racconta la sorella «con esso ho condiviso molte cose pur non avendo delle basi solide su cui poggiarmi. Si guardi in Niger, dove recentemente sono state distrutte 45 chiese: c’è ancora qualcuno capace di perdonare e di provare ad instaurare un rapporto di condivisione. Nei tempi di pace è sano e doveroso cercare la reciprocità; nei tempi di crisi e di guerra è solo un appello del Signore che ci porta in questi luoghi. Penso che la domanda da porci debba essere: chi vogliamo essere di fronte a questo? E ritengo che la risposta stia nella fede: credere fino alla morte sapendo che un seme è stato gettato sulla terra di un possibile incontro».