I vescovi devono tacere, dicono i guru laici. Un articolo del direttore di “Avvenire”

Così sostiene gente di destra, come Renato Farina, e gente di sinistra come il vignettista Vauro. Questo, oltre che di sinistra, è anche vignettista, dunque inattaccabile, infallibile come il Papa quando parla ex cathedra. Tutti d’accordo nel ritenere che i vescovi sono cittadini di serie B che quindi devono tacere. La polemica dopo le dichiarazioni di mons. Nunzio Galantino, segretario della CEI che aveva citato l’esempio dell’aborto, da una parte, e l’assoluzione di Berlusconi per il caso Ruby, dall’altra per sostenere che non tutto quello che è legale è anche morale.

“Avvenire” interviene con un articolo del direttore Marco Tarquinio. Lo proponiamo ai nostri lettori.

Rieccoli quelli che “i vescovi no”. Quelli, cioè, sempre pronti a intimare il silenzio alla Chiesa e ai suoi pastori quando dicono parole che suonano incalzanti o scomode o rivelatrici (o tutte queste cose insieme) per le coscienze. Rieccoli quelli che i vescovi (e i sacerdoti, in generale) vanno bene solo quando li si può raccontare come benedicenti un qualche gagliardetto (nero, rosso o di qualunque altro colore) oppure quando si lasciano ricoprire dalle contumelie più volgari “perché tanto non querelano”. Rieccoli. Scatenati dal fatto che monsignor Nunzio Galantino, vescovo e segretario generale della Cei, abbia confermato, con esempi comprensibili a tutti (le normative sull’aborto, cioè sulla soppressione di una vita nascente), che è tutt’altro che bislacca l’idea per cui ciò che è legale (una legge, una sentenza, un’azione…) non è sempre e necessariamente morale. Idea antica e solida, sollevata – prima della sottolineatura del vescovo – praticamente solo sulle pagine di questo giornale a commento dell’assoluzione definitiva di Silvio Berlusconi nell’incresciosa vicenda giudiziaria nota come “processo Ruby”. Idea taciuta da molti altri perché non condivisa, temuta o addirittura esecrata: la morale per quelli per cui non esistono il bene e il male (e perciò nessun diritto fondamentale precede le regole delle società umane) coincide totalmente con le conseguenze della legge a cui si punta e che, di volta in volta, si riesce a ottenere, fissando la nuova e più avanzata misura del giusto e dell’ingiusto…Scatenati, sì, per diversi motivi. In una certa destra, magari, ci si è sentiti punti sul vivo per aver marciato non solo idealmente, e piuttosto indecorosamente, sotto mutande alzate come bandiere e aver votato in massa nel Parlamento della Repubblica che Ruby Rubacuori, al secolo Karima el-Marough, era credibilmente «nipote di Mubarak». In una ben nota sinistra giustizialista è scattato il risentito bisogno di recuperare uno sgabello da cui alzare fuori tempo e fuori luogo il ditino della “diversità morale”, magari, perché incapaci di trovare voci e argomenti credibili – pena entrare in contraddizioni con se stessi – per valutare eticamente i gravi fatti che i giudici, dopo tre gradi di giudizio, non erano riusciti a catalogare come “reati”.E qui devo fare un passo indietro. Non scrivo mai di me stesso. E naturalmente non lo farò neanche in questa occasione. Ma stavolta devo dire qualcosa del mio mestiere. Che in questa fase della mia vita professionale è quello di direttore di “Avvenire”, cioè del giornale di ispirazione cattolica. E al direttore di “Avvenire” quasi tutti i colleghi commentatori hanno riconosciuto il diritto-dovere di esprimere – come ogni altro portatore sano di opinioni – un parere su fatti al centro della cronaca. Compresa, appunto, l’assoluzione definitiva – in uno dei processi più clamorosi tra quelli che lo hanno riguardato e lo riguardano – dell’uomo politico che ha impresso un segno indelebile sull’Italia della cosiddetta Seconda Repubblica. E meno male che questa libertà non è stata messa davvero in discussione. Perché altrimenti toccherebbe loro la stessa “missione impossibile” che spetta a un sussiegoso manipolo di altri colleghi: spiegare perché mai chi scrive sul giornale nazionale cattolico – o, come si dice spesso, sul “giornale dei vescovi” – dovrebbe essere meno libero di chi scrive sui giornali dei banchieri, dei finanzieri, dei costruttori, dei petrolieri, dell’industria nazionale e multinazionale o su giornali che affermano una propria ideologia di riferimento…A questo stesso manipolo di liberi pensatori anticattolici, che preferirebbero che il giornalismo di “Avvenire” fosse un giornalismo minore perché strutturalmente “a parola limitata”, ricordo volentieri – e con vera gratitudine per i nostri predecessori – che questo quotidiano è l’erede e il continuatore dei due grandi giornali cattolici – “L’Italia” e “L’Avvenire d’Italia” – che, dopo la guerra civile e di resistenza, mentre quasi tutta la stampa italiana era costretta a cambiare testata per il fatto di essersi inchinata ai nazifascisti fiancheggiandoli anche con entusiasmo, poterono invece tornare in edicola con la testata di sempre. Perché entrambi quei giornali – e i giornalisti che li facevano e il mondo cattolico che li sosteneva e che essi esprimevano – piuttosto che piegare la schiena e aprire le pagine a notizie e proclami che secondo la “norma” vigente erano in quel momento legali – una legalità che considerava “banditi” i partigiani – ma che risultavano sul piano morale insostenibili, avevano deciso di informare il più possibile controcorrente, scegliendo in autonomia titoli, toni e notizie. E ogni volta che questo, per atti di imposizione violenta, diventava impossibile preferivano non andare in edicola. Meglio un silenzio eloquente, che una parola serva (che non è sinonimo di responsabile) o compiacente (che non equivale al libero apprezzamento). Non siamo cambiati. E le collezioni di 46 anni di quotidiana informazione e di civile opinione di “Avvenire” sono lì a testimoniarlo.Ma ciò che, quasi da tutti, è bene o male riconosciuto ad “Avvenire”, secondo alcuni non sarebbe possibile a un vescovo. E in particolare non sarebbe lecito al segretario generale della Cei. In diversi, come ho ricordato, si sono esercitati in questa liberticida teorizzazione, basata sull’idea che i pastori della Chiesa siano cittadini di “serie B” e, comunque, sulla pretesa di rinchiuderli in un cliché di comodo e condannarli al silenzio. In modo diverso (anche per il linguaggio usato) e su sponde opposte (quanto a storia personale e politica), si sono distinti per la veemenza ingiusta dell’attacco a monsignor Galantino un opinionista (ed ex parlamentare Pdl) che si chiama Renato Farina e un vignettista che si chiama Vauro (Senesi).

Farina poco più di cinque anni fa fece esattamente lo stesso con il predecessore di Galantino, monsignor Crociata, personalizzando una polemica insensata. E dopo due giorni si scusò. L’uomo è capace di grandi errori e di seri ripensamenti. Per di più, a differenza del suo leader politico di riferimento, sa ammettere gli sbagli (condizione, nella Chiesa di oggi e di sempre, per quella misericordia capace di accompagnare ognuno di noi sulla via del perdono che non è da secoli sbandierato commercio di compiacenze e d’indulgenze, ma buon cambiamento di verso alle proprie azioni).

Vauro, invece, è – si sa – un acclamato disegnatore satirico. E dunque è infallibile, come il Papa quando parla ex cathedra, e intoccabile, come i re d’un tempo. Per più d’uno lo è anche quando ricicla trivialmente barzellette dell’Italia frontista contro i preti. Stavolta gli è venuto da ghignare acido, spersonalizzando l’invettiva e generalizzandola con ferocia, davanti a vescovi e sacerdoti che hanno la statura spirituale e umana che quelli come lui non sanno vedere e le parole che quelli come lui hanno perso. Ma ritrovare occhi onesti non è impossibile per nessuno, mai. Solo così le parole giuste (e la misura) torneranno.

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