Scienza e fede, anima e cervello. La sfida di ripensare l’uomo di oggi

In che rapporto sono la scienza e la fede? Secondo una lunga tradizione, che va da Lucrezio ai militanti del New Atheism (come il biologo Richard Dawkins e il filosofo Daniel Dennett), quanto più il sapere scientifico progredisce tanto più l’«incantesimo religioso» arretrerebbe, fino a scomparire. Altri autori, invece, risolvono la questione dicendo che scienza e religione dovrebbero procedere in parallelo, senza sconfinamenti né punti di contatto; contro questa tesi, apparentemente molto sensata, si potrebbe obiettare che il cristianesimo non si limita a parlare dell’aldilà o dell’anima dell’uomo, ma pretende di affermare qualcosa di significativo anche sul suo corpo e sull’aldiquà, sullo stesso mondo fisico e naturale che pure la scienza, da una diversa prospettiva, indaga. Andando al di là dei modelli della «lotta senza quartiere» e della «reciproca indifferenza», la Scuola di Teologia del Seminario di Bergamo sembra voler percorrere una terza via, ispirata all’idea di un «dialogo fecondo» tra differenti forme di sapere; si spiega anche così  la decisione di dedicare un convegno di studio – da giovedì 19 a sabato 21 marzo – al tema La natura e la tecnica: ripensare l’umano (il programma completo è pubblicato nel sito www.seminariobergamo.it). Tra i relatori figura il filosofo Massimo Reichlin, docente dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, che è stato invitato a tenere una relazione dal titolo «L’io in scacco? Neuroscienze e questione etica: modelli interpretativi».

Professor Reichlin, nel Seicento Cartesio si domandava se davvero alle nostre rappresentazioni mentali corrisponda, fuori di noi, una «realtà oggettiva». Nella nostra epoca, le neuroscienze sembrano aver portato il dubbio anche all’interno della «cittadella della coscienza»: non siamo più tanto certi di essere noi a pensare, a credere e ad agire, anziché il nostro sistema nervoso centrale…
«Non sono le neuroscienze, di per sé, a negare i concetti della libertà e della responsabilità personale, ma una certa interpretazione dei risultati di queste discipline, basata sull’idea per cui noi saremmo il nostro cervello. Il programma di ricerca della cosiddetta neurofilosofia prende appunto le mosse da questo assunto. Si arriva anzi a immaginare che una conoscenza completa del funzionamento dell’encefalo ci consentirebbe di manipolare la mente umana a nostro piacimento; da qui, la moda di molti programmi di ricerca contrassegnati con il prefisso “neuro”, come il neuromarketing, la neuroeconomia, la neuroestetica, la neuropolitica, le  neuroscienze sociali (inclusa la neuroscienza dell’amore e del sesso) e perfino la neuro-teologia».

Dobbiamo davvero rinunciare alla credenza nel libero arbitrio, come residuo di un pensiero prescientifico?
«No, non si è ancora dimostrato – a mio modo di vedere – che il libero arbitrio si riduca a un’illusione. Indubbiamente, le ricerche condotte nell’ambito delle neuroscienze sono affascinanti: pensiamo agli studi che fanno ricorso a tecniche di neuroimaging come la risonanza magnetica funzionale o la tomografia a emissione di positroni, che ci permettono di vedere in diretta quanto avviene nel cervello quando un soggetto compie un’azione, affronta un problema o esprime un giudizio di ordine morale. Occorre però entrare nel merito di questi esperimenti, distinguendo i dati dalle interpretazioni. Sempre in riferimento alle tecniche di neuroimaging: ciò che viene mostrato, in molti casi, è una “correlazione”, la compresenza di un particolare stato cerebrale e di un certo comportamento. Alcuni studiosi interpretano questa compresenza nel senso che la coscienza sarebbe determinata dagli stati neurali; ma si tratta solo di un’interpretazione possibile, appunto, non di una conclusione inevitabile».

Anche a livello divulgativo, però, si citano spesso gli esperimenti condotti negli anni Ottanta del secolo scorso da Benjamin Libet: sembrerebbero provare che il cervello «gioca d’anticipo» sulle scelte che la coscienza crede di compiere liberamente.
«Di esperimenti analoghi a quelli di Libet ne sono stati svolti anche in anni più recenti. Io non credo – ripeto – che essi siano giunti a dimostrare l’inesistenza del libero arbitrio. L’argomento più rilevante a sostegno di questa mia opinione, è che in tali esperimenti si sono studiate delle “decisioni” tra virgolette, come quella di premere oppure no un determinato pulsante. Quando noi parliamo di decisioni in senso proprio, con le relative implicazioni morali e in certi casi anche penali, pensiamo a ben altro».

Per esempio, alla scelta di sposarsi?
«Sì, o di divorziare, o di convertirsi a una particolare religione. La caratteristica di queste scelte è di essere assunte in base a “ragioni”, a motivi di ordine logico (che, peraltro, possono anche essere “caldi”, accompagnati da sentimenti ed emozioni). Se invece, prendendo io parte a un esperimento, mi si dice di scegliere per un gran numero di volte di seguito se muovere o non muovere un dito, posso anche essere portato a delegare la cosa a un “pattern”, a un automatismo. È un po’ come quando al mattino, senza pensarci troppo, uso la mano destra anziché la sinistra per prendere la bottiglia del latte dal frigorifero. Ecco, c’è un punto che va rimarcato: un conto è credere nel libero arbitrio, un altro è affermare che tutti i nostri comportamenti sarebbero, senza eccezioni, liberi. Mi pare più realistico pensare che la nostra libertà si eserciti entro confini mutevoli, dovendosi sempre confrontare con limiti oggettivi di vario tipo».

I progressi delle neuroscienze ci obbligano comunque a ritornare sul nostro modo di concepire il “fenomeno umano”? La mente e il corpo non possono essere più seriamente pensati come due sostanze in linea di principio separate?
«Questo è un tema particolarmente importante e impegnativo. Si possono contestare le tesi di Daniel Dennett o di altri filosofi e neuroscienziati per cui l’“io” si ridurrebbe all’effetto superficiale del funzionamento dei diversi moduli e strutture cognitive che formano il sistema nervoso centrale. A questa concezione riduzionista, però, non se ne può più contrapporre una dualista, di tipo cartesiano, per cui la mente e il corpo sarebbero due entità autonome. La sfida, per un’antropologia che sia adeguata alle conoscenze scientifiche del nostro tempo, è quella di pensare l’uomo come un essere radicalmente “incarnato”, e tuttavia caratterizzato anche dall’emergenza di nuovi aspetti che non si lasciano semplicemente ridurre a eventi materiali».