Contro la corruzione bisogna assumersi responsabilità. Una tangente dovrebbe essere peccato più grave di un “pensiero impuro”

Foto: Antonio di Pietro. «Rispetto al Savonarola ha avuto un destino meno tragico: si è bruciato da solo».

Il fiume della corruzione nel nostro Paese è carsico, funziona a sifone. A volte i bacini sotterranei si riempiono e il flusso esplode improvviso in faccia al Paese. Poi si inabissa di nuovo, ma continua a scavare nel sottosuolo. Le nostre reazioni oscillano tra il fatalismo e l’indignazione. Ambedue sono atteggiamenti di rassegnata impotenza.

INDIGNARSI NON BASTA

La morale non consiste nell’indignarsi. Sempre ad intermittenza, insorge talvolta dalla società civile fino a raggiungere la politica il fuoco fatuo di qualche “indignato” alla Savonarola. La parabola di Di Pietro resta paradigmatica. Rispetto al Savonarola ha avuto un destino meno tragico: si è bruciato da solo. Il fenomeno della corruzione ci mette davanti brutalmente alla condizione umana nella storia. Avendo oltrepassato da pochi anni il secolo delle ideologie/utopie, abbiamo dovuto prendere atto in modo disincantato e realistico, che “cieli nuovi e terra nuova” non sono alle soglie della storia né mai lo saranno. Come spiegò Kant, parlando dell’uomo, “da un legno così storto non si può trarre nulla di diritto”. E quindi? Non credo che basti rifugiarsi dietro le gonne dell’antropologia filosofica o della teologia del peccato originale o della morale dell’indignazione.

STRANI INCROCI FRA TRADIZIONE CATTOLICA E TRADIZIONE PROTESTANTE

Il nucleo incomprimibile di libertà/responsabilità che noi siamo esige molto di più. In primo luogo, un’assunzione di responsabilità. Non si tratta di un’imposizione moralistica esterna. L’imperativo etico della responsabilità sorge sul terreno storico-naturale della nostra condizione: noi siamo implicati originariamente con il mondo, siamo il prodotto di una rete di relazioni in cui siamo immersi, che non abbiamo scelto, che ci precedono. E’ una rete di libertà/responsabilità, dentro la quale anche noi subito incominciamo a “rispondere a” e a “rispondere di”. C’è un’infrastruttura di diritti/doveri che ci precede. Per una singolare inversione, la morale protestante – che muoveva da una teologia della giustificazione, nella quale le opere non contano nulla al fine della salvezza fino ad arrivare al predestinazionismo estremo di Calvino – ha enfatizzato per felice incoerenza il ruolo della libertà e della responsabilità individuale assai più della morale cattolica, che muoveva dalla teologia delle opere, come terreno di verifica della fede. Il pessimismo luterano sulla peccaminosità intrinseca della natura umana e l’identificazione stringente del peccato individuale con il reato sociale hanno spinto a costruire istituzioni dure e punitive rispetto al peccato/reato. Con ciò la morale individuale diviene etica pubblica. Ora, per fondare l’etica pubblica non basta la moral suasion, occorre la legal suasion.

PECCATO E REATO

La repressione esterna è stata progressivamente introiettata dalle generazioni come convinzione interna. Del peccato si risponde a Dio, del reato si risponde agli uomini. Dio si può permettere il lusso della misericordia, gli uomini no. La separazione tra Chiesa e Stato ha comportato quale conseguenza la separazione tra il peccato e il reato. Nel mondo cattolico ha ridotto il peccato a cattiva relazione individuale con Dio, mentre andava perduta la dimensione sociale del peccato/reato. Il peccato sociale ha fatto ingresso molto tardi nell’etica della Chiesa, è tornato sulla scena solo dopo il Concilio vaticano II. I classici “Tre Pater-Ave-Gloria” hanno sempre chiuso un occhio sui comportamenti pubblici. L’importanza dei comandamenti sembrava decrescere dai primi agli ultimi: “un cattivo pensiero” era un peccato più grave di una tangente. I peccati contro le istituzioni pubbliche non sono entrati a pieno titolo nella morale cattolica, perché alle istituzioni pubbliche non è mai stato conferito un valore decisivo ai fini della vita sociale. Ora, ai fini dell’educazione alla responsabilità, contano, assai più che le esortazioni morali, la qualità delle istituzioni pubbliche e l’assetto pubblico complessivo.

LA SCUOLA E LA TESTIMONIANZA DELLA RESPONSABILITÀ

Se le istituzioni pubbliche sono organizzate sul principio di irresponsabilità e di fuga, burocraticamente blindato – questo è il caso dell’Italia –  l’alone diseducativo che si diffonde nel Paese è assai largo e visibile. Solo un esempio: nelle scuole, in questi anni, sono state promosse campagne costose di educazione alla legalità e alla cittadinanza. Sono state persino istituite – o si vorrebbero – cattedre ad hoc. Ma se la scuola nel suo funzionamento reale non testimonia un’assunzione di responsabilità, di rigore, di puntualità da parte delle generazioni adulte che vi operano – dirigente, docenti, personale ATA – i ragazzi non saranno certo spinti ad assumersi le proprie. Ancora e sempre educare vuol dire testimoniare la propria responsabilità. Forse la migliore definizione di educazione è quella data da Hannah Arendt: “L’educazione è il momento che decide se noi amiamo abbastanza il mondo da assumercene la responsabilità…”.