Tra frastuono e silenzio. La domanda di sempre: ad Auschwitz dove era Dio?

Foto: Elie Wiesel. ” Dietro di me udii il solito uomo domandare: Dov’è dunque Dio? E io sentivo in me una voce che rispondeva: Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca” (“La notte”)

Settimana scorsa sono stato ad Auschwitz-Birkenau con un centinaio di ragazzi, provenienti da una decina di Scuole superiori di Bergamo e provincia. Con noi, c’erano pure Andra e Tatiana Bucci, deportate a Oswiecim (il nome polacco del campo) quando avevano quattro e sei anni e sopravvissute perché, giunte alla Rampa dopo un lungo viaggio in treno iniziato dalla Risiera di San Sabba a Trieste, furono scambiate come gemelle. A non farcela fu Sergio, il cugino che partì con loro. Fu sopraffatto dall’inganno perpetrato da Mengele una mattina di novembre del 1944, quando entrando nella baracca dei bambini di Birkenau disse: “Chi vuole vedere la mamma faccia un passo avanti”. Sergio fece un passo in avanti insieme ad altri diciannove bambini. Tutti e venti furono trasferiti al campo di concentramento di Neuengamme, vicino ad Amburgo, usati come cavie di laboratorio – venne iniettato il virus della tubercolosi – assassinati con la morfina e impiccati nei sotterranei della scuola di Bullenhuser Damm.

DOV’ERA DIO?

Ogni volta che attraverso il portone con sopra la scritta “Arbeit macht frei” mi vengono in mente le ultime righe di un libro di Elie Wiesel, il lucido testimone della Shoà: congedando i suoi personaggi, i morti evocati, dice che “il silenzio, più della parola, rimane la sostanza e il segno di ciò che fu il loro universo e, come la parola, il silenzio s’impone e chiede di essere trasmesso”. Eppure ogni volta, al termine della visita di un campo di concentramento o di sterminio, dopo un lungo silenzio attonito, i ragazzi che accompagno si aprono alle domande. A tante domande. Sulle responsabilità e le omissioni, sulle colpe e le vigliaccherie. E su Dio. Non c’è viaggio dove non mi venga posta l’interrogativo: “Dov’era Dio?”.

AUSCHWITZ E L’IMPOSSIBILITÀ DI SPIEGARE IL MALE

Ogni volta rispondo loro chiedendo, anzitutto, di tenere aperta la domanda. Di non chiuderla troppo in fretta. E racconto di due libri, sempre di Wiesel. Il primo è un testo teatrale (“Il processo di Shamgorod”, da La Giuntina) ambientato nel 1649, in un villaggio presso il fiume Dniepr, dove le orde cosacche hanno sterminato l’intera comunità ebraica ad eccezione dell’oste e di sua figlia, più volte stuprata e per questo impazzita. A Shamgorod per la festa di Purim arrivano degli attori girovaghi ebrei che, come era ed è tradizione anche oggi, vogliono allestire uno spettacolo sulla storia di Ester, una vicenda biblica a lieto fine. L’oste Berish rifiuta la proposta; pretende, in sostituzione, un processo a Dio e si assume la parte dell’accusatore. I teatranti prendono la parte della giuria e Dio non ha nessuno che lo difende! Berish accusa Dio di aver consentito i massacri del suo popolo (effettivamente nel 1648-49 furono uccisi 100.000 ebrei e distrutte 300 comunità, ma Wiesel disegna in filigrana la Shoà). Dopo poco dall’inizio del processo, giunge nella locanda un distinto signore, di nome Sam, che dopo essersi informato della situazione, si dichiara pronto a prendere lui le difese di Dio. Lo fa, in modo forbito, sfoggiando tutta la teodicea tradizionale possibile, gli argomenti che i teologi da sempre hanno utilizzato per dare un significato al male. Alla fine, i cosacchi stanno per arrivare e il Pope – giunto di corsa alla locanda – invita tutti gli ebrei a battezzarsi (anche per finta) per evitare il massacro. L’oste, che sino ad allora ha gridato a Dio la sua collera, si rifiuta. Quando ormai il rumore dei cosacchi è vicino, si scopre che Sam è il diavolo. A questi preme moltissimo che Dio venga difeso dalla teodicea nella sua onnipotenza, nella sua bontà infinità, nella sua saggezza, nel suo saper trasformare il male in bene; infatti un tale Dio ha il potere di mettere in crisi la fede di molti. La teologia di Shamgorod è invece quella che respinge come diabolica la classica concezione di questo tipo di Dio, perché la riflessione e l’esperienza del male, del dolore e della morte porterebbero a una negazione e all’odio di un Dio siffatto. Auschwitz, scrive Paolo De Benedetti – “rappresenta – e deve farlo – la morte della teodicea: dopo Auschwitz, la teodicea come tentativo di spiegare il male è una bestemmia ancora più grande che quella di accusare Dio di ingiustizia, come fa, con fede incrollabile, Berish. Auschwitz è un buco nero della teologia, in cui Dio rischia di sparire se non si affronta il problema.”

ECCOLO, DIO È LÌ, APPESO A QUELLA FORCA

Infine, leggo agli studenti una pagina, conosciutissima, del testo più famoso di Wiesel, “La notte”. E’ il racconto dell’impiccagione del pipel, il ragazzino dal volto di un angelo infelice. Il premio Nobel per la pace narra che una sera, al ritorno dal lavoro nel campo di sterminio, i prigionieri, sull’appelplatz, devono assistere all’impiccagione di tre persone, una delle quali un ragazzo, coinvolto nella scoperta di armi custodite da un prigioniero suo protettore. “Poi cominciò la sfilata. I due adulti non vivevano più. La lingua pendula, ingrossata, bluastra. Ma la terza corda non era immobile: anche se lievemente il bambino viveva ancora… Più di una mezz’ora restò così, a lottare fra la vita e la morte, agonizzando sotto i nostri occhi. E noi dovevamo guardarlo bene in faccia. Era ancora vivo quando gli passai davanti. La lingua era ancora rossa, gli occhi non ancora spenti. Dietro di me udii il solito uomo domandare: Dov’è dunque Dio? E io sentivo in me una voce che rispondeva: Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca”.
Quante volte abbiamo usato questo testo, terribile, perché fa pensare al martirio e alla Croce. Anche qui, però, in modo magistrale, ci viene in soccorso De Benedetti. Il quale, per tante ragioni, vuole tenere la Croce il più lontano possibile. La sua lettura è un’altra: “se Wiesel ravvisa Dio nel bambino impiccato e senza voce, allora questo è già un passo avanti rispetto alla domanda che io pongo a me stesso: Dio, dov’è ? Dio, nella Bibbia è chiamato Ha-mistatter, “colui che si nasconde”. Il Dio di Israele che salva si nasconde anche nella condizione di martire. Il punto drammatico è che invece nella nostra tradizione, sia ebraica che cristiana, c’è sempre stato un atteggiamento trionfalistico: si è sempre pensato che quel che occorreva sapere su Dio si sapeva, e si sapeva con certezza. Ma nella Bibbia (e pure nel midrash), conclude De Benedetti, “l’immagine di Dio è instabile, ambigua, cioè oscilla tra due crinali, e non sappiamo mai su quale si stabilizzerà. I due crinali sono la teofania del Sinai e la teofania di Elia. Il frastuono e il silenzio.”