I profughi a Bergamo? Sono 500, divisi in nove centri. E si impegnano ogni giorno in attività di volontariato

Pakistan, Ghana, Nigeria, Gambia, Afghanistan, Senegal, Burkina Faso, Mauritania, Mali, Costa d’Avorio, Bangladesh: se mettessimo una bandierina su un mappamondo per ogni Paese di provenienza dei circa 500 profughi ospitati nei 9 centri gestiti dalla diocesi, attraverso la Caritas e la cooperativa Ruah, il risultato sarebbe un mosaico ricchissimo di colori.
L’ospite più giovane ha 19 anni, il più «anziano» 44: la media ne ha circa trenta: uomini nel pieno della vita, segnati da storie difficili, ma ancora pieni di entusiasmo e di sogni.

I centri di accoglienza diocesani sono in città al Gleno e a Casa Amadei, in via San Bernardino, e in provincia a Roncobello, Casazza, Botta di Sedrina, San Paolo d’Argon, Urgnano e (due) a Valbondione. Per completare il quadro dell’accoglienza bergamasca segnaliamo che ci sono altri tre centri, in provincia, non gestiti dalla diocesi ma da una cooperativa sociale indipendente: si trovano ad Antegnate, a Vigano San Martino e a Monasterolo.

La nostra diocesi è stata «attraversata» da circa 1.100 persone: «Oltre seicento profughi, però – spiega Bruno Goisis, presidente della cooperativa Ruah – erano solo di passaggio nei nostri centri d’accoglienza: si sono fermati per qualche giorno per riprendere le forze, poi sono ripartiti per altri Paesi europei. Alcuni si sono messi in contatto con le commissioni territoriali e hanno già ottenuto un permesso di soggiorno umanitario, e grazie ad esso si sono spostati per raggiungere parenti e amici.  I centri di accoglienza non sono luoghi di reclusione, perciò gli ospiti sono liberi di scegliere la propria destinazione».

In ogni centro ci sono educatori, responsabili di struttura e mediatori culturali: «Sarebbe più semplice e più economico, probabilmente – chiarisce Bruno Goisis – offrire soltanto un letto e il cibo, ma il nostro progetto non è questo».

Agli ospiti viene offerta la possibilità di seguire diversi laboratori: prima di tutto la scuola di italiano, perché la maggior parte ne sa appena qualche parola. Quando è possibile vengono attivati anche percorsi di formazione professionale, in collaborazione con enti e istituzioni sul territorio. «Al Gleno, poi – racconta Bruno – è stata avviata un’interessante esperienza teatrale: da gennaio c’è un regista che guida il lavoro di un gruppo misto, composto da profughi e italiani, si ritrova un paio di volte alla settimana. A Botta di Sedrina c’è un complesso che fa musica moderna. A Casazza un gruppo che fa musica tradizionale con i tamburi. Così nascono anche occasioni di scambio. Domenica, per esempio, il gruppo di Casazza va a suonare a Castel Rozzone. E alla Festa dei popoli al Gleno ci sarà uno dei profughi, musicista professionista, che suonerà la korà». Sempre a Casazza c’è «l’orto profugo», ospitato in una bellissima serra.

Gli ospiti dei centri di accoglienza vengono poi coinvolti nelle attività di manutenzione, pulizia e gestione quotidiana della struttura dove risiedono: danno una mano a tagliare l’erba, a pulire le aiuole, vengono aiutati a imparare i rudimenti della cucina, dall’igiene alla conservazione dei cibi, fino alla realizzazione di semplici ricette con ingredienti italiani, in modo da preparare autonomamente a turno i pasti. E poi riordinano le stanze e gli ambienti comuni.«Gli ospiti dei centri di accoglienza – chiarisce Bruno – sono tutti uomini e nelle loro culture di provenienza i maschi non cucinano e non fanno mestieri, quindi queste attività non appartengono alla loro mentalità: per questo è necessario insegnarle e condividerle». Anche la convivenza tra tante culture diverse all’interno di un centro di accoglienza è una prima scuola di integrazione e richiede un paziente lavoro di mediazione.

Ogni giorno una novantina di profughi accolti nei centri di accoglienza bergamaschi svolgono attività di volontariato: si alternano a turni, al mattino e di pomeriggio, circa duecento ospiti. «Hanno aderito volentieri a questa proposta – spiega Bruno Goisis – e non era scontato: ci è voluto un cammino di riflessione, di preparazione e di coinvolgimento per aiutarli a capire di cosa si trattava. Nei loro Paesi di provenienza, dove la lotta quotidiana è quella della sopravvivenza, non si fa volontariato, perciò per loro è una cosa nuova. Si è reso necessario anche spiegare al territorio cosa vuol dire accogliere africani che fanno volontariato. I bergamaschi associano a queste attività immagini di operatività, velocità ed efficienza. Loro hanno ritmi e modalità diverse, una concezione diversa del tempo». L’incontro su questo terreno diventa un percorso di crescita per entrambi. Le attività svolte sono molto varie: c’è chi pulisce marciapiedi e parchi, boschi o le rive dei fiumi, chi fa volontariato in una scuola dando una mano ai bidelli, chi svolge attività nelle parrocchie. «Stanno iniziando le feste parrocchiali – osserva Bruno – e i profughi-volontari affiancano i nostri ragazzi in attività come servire ai tavoli e pulire. Negli oratori danno una mano alle signore del bar o a riordinare l’oratorio». Piccoli gesti, attività semplici. Ma ognuna contribuisce a costruire un clima di rispetto reciproco e a far capire cosa significa in concreto imparare a vivere insieme, al di là di polemiche e ideologie.

corsocucinaprofughi