I preti, servitori della gioia. Soprattutto quando si soffre

Una delle più stimolanti definizioni del ministero sacerdotale è di S. Paolo: “Noi non siamo i dominatori della vostra fede, ma i servitori della vostra gioia” (2 Cor 1, 24). Giovanni Paolo II nella Catechesi tradendæ (n. 61) direbbe che dobbiamo aiutare i fedeli a essere “lieti nella loro fede”.

NON COME GLI AMICI DI GIOBBE

Uno degli ambiti in cui questo compito è più difficile e delicato è quando le persone vengono a trovarsi nel dolore e nella sventura. Nella casa del dolore il sacerdote deve entrare in punta di piedi e in silenzio, perché è terreno sacro. Guai a entrare con la presunzione di chi sa tutto come gli amici di Giobbe, il sofferente per eccellenza: consolatori da nulla, che farebbero meglio a tacere (Gb 13, 4-7) e che fanno arrabbiare il Signore, perché parlano di lui senza fondamento (42, 7).

La sventura è comunque e in ogni caso uno sconquasso della persona, della sua sicurezza interiore, delle sue convinzioni e anche della sua fede. Ma c’è da dire che, per quanto riguarda la fede, ad aggravare lo sconquasso contribuiscono moduli mentali in qualche modo di origine religiosa. Ne è pieno appunto il libro di Giobbe con i ragionamenti dei suoi amici.

ATTENTI A PARLARE INDEBITAMENTE DI CASTIGO

Uno di questi moduli è il rapporto che molti stabiliscono fra sofferenza e castigo per il peccato. Recentemente alla morte tragica di un giovane che era l’anima di un bellissimo gruppo di amici, ho sentito dire da uno di loro: «Che male ha fatto nella sua vita per finire così?». Gesù stesso smonta questo modo di vedere le cose. A Gerusalemme era crollata una torre uccidendo diciotto persone; andarono a dirlo al Signore per sentire che cosa diceva. E lui: «Credete che quei diciotto fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme?» (Lc 13,4). Ma, da salvatore dell’uomo, raccomandò a tutti di prendere motivo dalle tragedie della vita per convertirsi ad un’esistenza più saggia e più buona di cui abbiamo tutti bisogno per poterci salvare.

DIO NON FA MORIRE PER CHIAMARE A SÉ

Altro disorientamento della fede anche di molte persone di Chiesa si ha quando muore un giovane o, peggio ancora, un bambino, mentre nei dintorni prosperano persone molto vecchie. Vien da dire a tutti, a volte agli stessi anziani: “Perché il Signore ha fatto morire quel ragazzo? Non poteva tirar su un vecchio ormai “sazio di giorni”?”. Questo atteggiamento è rafforzato anche dall’espressione “Dio l’ha chiamato a sé” con cui i sacerdoti stessi a volte indicano la morte. Non è raro che, per ribellarsi a tale impostazione delle cose, anche molti fedeli arrivino a rasentare perfino la bestemmia.

Per aiutarli a superare la tentazione e a essere umilmente sereni nella loro fede, soprattutto proprio nei momenti di più grave turbamento, io domando: “Riuscite davvero a pensare che Dio stia su in paradiso a dire: oggi faccio morire quel giovane, domani quella mamma, dopodomani quel bambino, quel papà?”. È impensabile. Dio non fa morire per chiamare a sé, ma quando uno muore, Dio, che è il Dio della vita, non lo lascia finire nel nulla, ma lo accoglie nel suo abbraccio e gli dice: “Vieni a godere la gioia del regno preparato per te”. Questa è la ragione per cui noi, anche nello strazio più atroce del distacco dalle persone più care, abbiamo la certezza che le ritroveremo. Per i cristiani, anche nei lutti più atroci, lacrime amarissime e serenità di speranza stanno insieme. Ed è la ragione per cui anche nei funerali il sacerdote invita a rendere grazie al Signore e i presenti rispondono (forse senza pensarci): “È cosa buona e giusta”.

DIO È SALVATORE ANCHE NELLA MORTE

SÍ, è giusto ringraziare al Signore anche nei momenti del lutto perché egli è salvatore anche nella morte. A questo proposito ho un toccante ricordo personale. In una delle parrocchie dove sono stato era morto all’ improvviso un bambino di otto anni. Alcuni giorni dopo la mamma mi ha chiesto: “Che cosa dovevo dire a mia figlia che vuol sapere dov’è ora il suo fratellino? Io le ho risposto che è in cielo con Gesù. Allora lei mi ha domandato: Perché piangi se sai che è con Gesù. Io non ho saputo risponderle. Lei, don Giacomo, che cosa mi suggerisce?”. “La domanda della tua bambina è toccante, ma bellissima. Porterà te, tuo marito e porta anche me a capire che, sapendo che il Signore ha chiamato il bambino vicino a sé, noi siamo contenti, perché sappiamo che non è perduto, che è al bello e che un giorno lo ri-incontreremo. ma siccome fino a quando anche noi non saremo con il Signore il nostro bambino non lo vedremo più, allora piangiamo, e tanto!”.

S.Paolo non vuole che nella sventura i credenti siano tristi come quelli che non hanno speranza, perciò raccomanda che ci consoliamo a vicenda con le parole della fede. Ma occorre dire che anche una vicinanza silenziosa può essere un confortante servizio alla serenità di chi è nel dolore. Nel libro delle Lamentazioni infatti (3, 26) è detto: “È bene aspettare in silenzio la salvezza del Signore”.