La “buona scuola” non è una riforma. Tra furori ideologici di altri tempi e il disinteresse di molta politica

Il nostro collaboratore Giovanni Cominelli è uno dei maggiori esperti di problemi della scuola.
Ha collaborato con i ministri Luigi Berlinguer e Letizia Moratti. 
Gli abbiamo chiesto un parere sulla recente “riforma” della scuola
promossa dal governo Renzi

Che cosa cambia da settembre nella scuola italiana? Non tutto quello che il Documento “La buona scuola”, gettato nella discussione pubblica nel settembre 2014, prometteva, neppure tutto ciò che prometteva il Disegno di Legge relativo. La legge, così come è, scampata al ping pong parlamentare tra Camera-Senato-Camera, introduce alcune novità, che vanno segnalate. Si tratta di riforma? Dipende dal significato che si annetta alla parola. Se riforma significa affrontare in modo sistematico – visto che abbiamo a che fare appunto con “un sistema” – i quattro lati del quadrato: il curriculum essenziale, la struttura degli ordinamenti, le politiche del personale, l’assetto istituzionale e amministrativo, allora questa non è certamente una riforma. E’ piuttosto qualche colpo di cacciavite bene assestato, come suggerì e praticò Beppe Fioroni, Ministro dell’istruzione tra il 2006 e il 2008.  La macchina, tuttavia, è rimasta la stessa.

I “COLPI BENE ASSESTATI”

I colpi bene assestati? Assunzione graduale di 100 mila docenti, aumento del potere dei dirigenti in ordine all’assunzione del personale dell’organico dell’autonomia, premio del merito dei docenti, arricchimento dell’offerta formativa, potenziamento dell’alternanza scuola-lavoro, finanziamento della formazione dei docenti, detrazioni fiscali per chi fa donazioni alle scuole, potenziamento dell’istruzione tecnica superiore (ITS), edilizia scolastica. Nulla di radicalmente risolutivo rispetto alla crisi grave del sistema educativo in Italia. Sulla cui condizione proprio il giorno dell’approvazione finale alla Camera l’INVALSI ha presentato il Rapporto 2015 sulle prove omonime. “La macchina” dell’istruzione “scarta” ogni anno il 20% dei ragazzi (circa 180 mila); le assenze degli studenti sono il doppio di quelle europee; il numero di insegnanti è il più alto d’Europa, con un rapporto insegnante/studente di 1 a 11, mentre in Europa è 1 a 15. Gli insegnanti hanno un’età media di 55 anni, mentre in Europa ruota attorno ai 40 anni. Il reclutamento avviene per sanatorie successive. Quella di quest’anno è la più grande. Ma, ciononostante, il meccanismo che riproduce il precariato non è stato bloccato. Le scuole paritarie sono in crisi profonda. Il numero di ore di lezione è il più alto d’Europa, benché non si riesca a intravederne un miglioramento dei livelli. Si potrebbe continuare a lungo a leggere il cahier de doléances.

TOCCARE I PUNTI CRUCIALI PER UNA VERA RIFORMA

Finché non si toccano radicalmente i quattro lati di quel quadrato, non se ne uscirà. Detto in breve: ridurre il curriculum al suo nocciolo essenziale, già indicato nelle quattro aree di Fioroni (Lingua, Lingue e Linguaggi, Storia, Matematica, Scienze); riprendere la riforma degli ordinamenti di Luigi Berlinguer del 7+5, togliendo di mezzo la Scuola media e riducendo ai 17/18 anni l’età di uscita dalle scuole; formare nella “bottega delle scuole” il personale e assumerlo direttamente, differenziandolo per merito in stipendi e step di carriere; riconoscere autonomia organizzativa, didattica, finanziaria alle scuole, proprio perché non sono Uffici decentrati dell’apparato ministeriale, bensì espressione della società civile di un determinato territorio. Si può tranquillamente prevedere, senza appollaiarsi sul ramo dei gufi, che la crisi del sistema continuerà ad aggravarsi. Crisi del sistema significa che la scuola è sempre meno il luogo dell’incontro educativo tra generazioni. Colpa di Renzi? Bisogna dire che ci ha creduto e ci ha provato. Ma già a partire da settembre si è levato un vento corporativo dalle scuole, dalla società civile, dai sindacati, che la sinistra PD e la destra hanno sfruttato per abbattere il governo. La destra sull’istruzione è muta e agnostica. Come a dire: non gliene importa nulla. La sinistra PD e sindacale è invece fortemente ancorata alla concezione gentiliana e statalista-centralista del sistema di istruzione/educazione. Dove si parla di autonomia, viene tradotto con privatizzazione e liberismo selvaggio. Dove si parla di responsabilità dei presidi, viene tradotto  con sceriffo.  E via riproducendo tutti i tabù ideologici degli anni ’70, dal collegialismo al partecipazionismo democratico assembleare dei Decreti delegati, che servono da fondamento culturale alla tenuta del duopolio amministrazione-sindacati, che governa l’intero sistema.

Resta tutto aperto, in primo luogo nella società civile, il tema della centralità della questione educativa e della sua emergenza.