Roma eterna, anche nei traffici loschi e nella sporcizia. Curiose testimonianze di autori di Roma antica

Chi si dice stupito della condizione disperata e disperante in cui versa la nostra capitale mente spudoratamente, o ignora millenni di storia: Roma è Città Eterna anche nel senso che eterni sono i suoi vizi e le sue macchie, l’arrivismo e la corruzione dei suoi politici, lo scarso civismo dei suoi abitanti, il degrado morale e non dell’intero contesto urbano. Il sindaco Ignazio Marino sembra persona volenterosa eppure impotente, ma addebitargli la colpa di tare secolari sarebbe ingeneroso. Basta sfogliare le pagine degli autori latini per trovare decine di impietosi resoconti da una città unica al mondo, nel bene e nel male, nel meglio e nel peggio.

SENATORI E CITTADINI NON FANNO ALTRO CHE IMBROGLIARSI A VICENDA

La proverbiale disonestà di politici e faccendieri capitolini è un male non solo di questi tempi, stando a quanto scrive nelle sue satire Lucilio, vissuto centocinquant’anni prima di Cristo (!): il poeta si lamenta che dall’alba fino a notte, sia nei giorni feriali che in quelli festivi, cittadini e senatori hanno un gran da fare nel foro, con “un solo e medesimo scopo: imbrogliarsi a vicenda e con astuzia, ingannare, sopraffare con blandizia, fingersi galantuomini e tramare insidie”. Le cronache sul malaffare moderno si avvicinano paurosamente a quelle antiche: lo storico Sallustio dipinge un quadro a tinte fosche della Roma repubblicana, una città gaudente e opulenta in cui prosperano i vizi, “i nobili cominciano a sfruttare a proprio piacimento il potere, e il popolo la libertà, per profittare, rubare, saccheggiare”.

“LA SPOSEREI BEN VOLENTIERI SE FOSSE ANCORA PIÙ VECCHIA”

Il magna-magna all’amatriciana è antico come il mondo, o almeno come Roma: i ricchi si spartiscono posti e privilegi, mentre i poveri si arrabattano come possono, con mezzi leciti e meno leciti, truffe e scaltrezza. Marziale, poeta disimpegnato del I secolo d.C., nei suoi epigrammi tratteggia gustosi ritratti di personaggi non proprio irreprensibili: c’è il dottore delinquente, tale Diaulo, “poco fa un medico, ora un becchino: ciò che fa da becchino lo aveva fatto anche da medico”, c’è lo spiantato in cerca di eredità (“Paola vuole sposarmi, ma io no: è vecchia. La sposerei ben volentieri, se fosse ancora più vecchia”), c’è il popolino che si accontenta di panem et circenses e c’è il perenne problema degli sfratti, come quello tragicomico di un certo Vacerra a cui Marziale, con non troppo garbo, chiede: “perché cerchi una casa e vuoi beffare gli amministratori, quando puoi trovare un alloggio gratis: un ponte?”.

“NEMMENO ERCOLE CE LA FAREBBE A RIPULIRE ROMA”

Passano gli anni, non i problemi: rifiuti e sporcizia che oggi insudiciano la città erano un problema già duemila anni fa, tanto che Varrone arriva a dire che “nemmeno Ercole ce la farebbe a ripulire Roma”, lui che pure, secondo il mito, spazzò via montagne di letame dalle stalle del re Augia. “Nunc sumus in rutuba”, esclama alla fine lui: siamo nel caos, diciamo noi oggi.

IL CAOS DEL TRAFFICO DEI CARRI

Inutile insistere sull’inefficienza dei trasporti e delle infrastrutture romane: strade intasate, traffico infernale, mezzi di trasporto pericolanti e pericolosi affliggono Roma ben prima che si costruissero metropolitane e raccordi anulari. Ne dà testimonianza Giovenale (Satira III), quando racconta la fatica di camminare tra la “folla che preme e che ostacola”, chi sgomita chi spintona, con “le gambe che si ingrassano di fango, si pestano i piedi, le tuniche appena rammendate si strappano” e carri stracolmi ondeggiano traballanti tra la calca, minacciando rovinose cadute.

IL FORO ROMANO PIENO DI “PORCI E DI BOVI”

Non ci resta che guardare alla città più bella del mondo con l’incredulo sgomento con cui la descrive, nel pieno Quattrocento, Poggio Bracciolini: “Cosa tristissima è questa e degna di non piccola meraviglia: il colle del Campidoglio, una volta a capo dell’impero romano e cittadella del mondo, davanti a cui tremavano tutti i re e i prìncipi, è a tal punto desolato, rovinato e mutato da quel suo primitivo splendore, che è diventato deposito di letame e d’immondezza. Il foro, il luogo più celebre per le leggi, per le riunioni del popolo, e lì vicino il Comizio, insigne per l’elezione dei magistrati, sono deserti e squallidi, l’uno alloggio di porci e bovi, l’altro coltivato a legumi”. Non ci sono ancora porci e legumi, ma l’idea di sé che Roma sta dando al mondo in questi giorni non è molto diversa.