Istanbul, città-ponte fra Oriente e Occidente. E i cristiani in stato di minorità

Foto: Istanbul, la Moschea blu

Paese laico, nazione musulmana, gente secolarizzata, nonostante Erdogan: è difficile riassumere un paese in poche battute. Tanto più un paese come la Turchia, grande quasi tre volte l’Italia e popolato da circa ottanta milioni di abitanti. Eppure questa definizione l’ho sentita ripetere più volte e l’ho percepita chiaramente attraversando Istanbul, “il ponte tra Oriente e Occidente” come spesso viene definita. Camminando – e perdendosi – tra i suoi quindici milioni di abitanti, è facile incontrare donne interamente avvolte nei neri chador e, contemporaneamente ragazze, in attillati e succinti vestiti variopinti, con tacchi vertiginosi o in jeans e t-shirt; puoi ritrovarti in un grande viale con lussuosi vetrine di abbigliamento delle più rinomate firme europee e rimanere impregnato dal forte odore di fritto tipico del McDonald, con musica rock e inglese proveniente dalle numerose librerie e negozi di Cd oppure perderti per le intricate viuzze con i loro botteghini pieni di ogni cosa e intasate da auto e camioncini che cercano di aprirsi un varco tra i venditori ambulanti che, con le bancarelle stracolme, urlano le loro migliori offerte, mentre il muezzin, inesorabile, richiama alla preghiera. Una geografia umana plurale, come del resto la stessa geografia fisica di Istanbul, che il “califfo” Erdogan vorrebbe sempre più omogeneizzare sotto il segno dell’Islam. Due città sul Bosforo unite dal nome e da una serie di ponti. Balza subito agli occhi la sua natura bifronte, modellata su marcati contrasti: la Moschea Blu e l’Hilton, il Gran Bazar e la modernità novecentesca del quartiere Taksim, Palazzo Topkapi e il grande ponte che collega l’Europa all’Asia. Come a dire di una vocazione di raccordo, di incontro e di sintesi: non esiste probabilmente al mondo una città così duale, con anime a un tempo diverse e compresenti. Perché anche la storia ha voluto imprimere il marchio di culture e religioni diverse che hanno fatto grande la città nel corso dei secoli: prima Costantinopoli, la Roma d’Oriente, poi Bisanzio, la seconda Roma e, conquistata dai cannoni nel 1453, la nuova vita come capitale degli Ottomani. Non a caso, lo storico Philip Mansel ha pubblicato, qualche anno fa per Mondadori, “Costantinopoli”, ricostruendo la storia di Istanbul proprio a partire da questo scontro-confronto tra civiltà. “La molteplicità di identità – scrive – era un fatto naturale: la città era una porta aperta nel muro che separava Islam e cristianesimo. La “sede del Califfato” apparteneva al “sistema Europa”: a Costantinopoli si poteva essere a un tempo greci e ottomani, musulmani ed europei, e considerare la nazionalità un mestiere anziché una passione”. Anche oggi, turchi incontrati durante il viaggio, raccontano l’attrazione esercitata dall’Europa e, insieme, il desiderio di non farsi omologare dalla cultura occidentale; la superiorità nei confronti del mondo arabo ma anche la fratellanza con il resto della grande famiglia musulmana sparsa nel mondo. Turchia: avamposto occidentale o prima propaggine islamica in terra europea? Insomma, tentare di decifrare tutto questo non è un’impresa tra le più facili.

Come non è facile decifrare il ruolo che i cristiani possono giocare ancora in questa terra. Non dimentichiamo che se il cristianesimo è nato in Terrasanta, la sua strutturazione storica, teologica e dogmatica – in particolare sul mistero trinitario e sulla cristologia – è avvenuta soprattutto nel territorio dell’attuale Turchia. Qui operò l’apostolo Paolo; qui è stata elaborata una prassi cristiana di straordinaria importanza; qui si sono tenuti tutti i primi sette Concili ecumenici ancor oggi riconosciuti da cattolici e da ortodossi; dal primo della serie, Nicea I (325), a Costantinopoli I (381), a Efeso (431), a Calcedonia (451); attribuì il titolo di “ecumenico” al patriarca di Costantinopoli, scelta contestata da Roma); fino al Nicea (787), l’ultimo che gli ortodossi riconoscano come ecumenico. Oggi i cristiani sono meno dello 0,2% della popolazione complessiva: erano il trenta per cento agli inizi del Novecento. Un declino inarrestabile in una nazione che, nonostante o in forza della scelta operata settant’anni fa da Kemal Atuturk, fa – oggi – dell’islam il baluardo identitario insuperabile.

Nei miei giorni di Istanbul ho voluto incontrare alcune piccole realtà cristiane per capire da loro cosa significa vivere in minoranza e in minorità. Due condizioni che noi, dalle nostre parti, spesso evochiamo senza aver ben presente il peso e la reale consistenza che queste comportano. Incontri magnifici con donne e uomini (le Piccole Sorelle di Charles de Foucauld, padre Ruben e la comunità francescana) che custodiscono la fede spesso nel silenzio (penso ai “cripto cristiani”, i tanti che hanno deciso nel totale nascondimento, anche dei propri familiari, di scegliere di diventare cristiani) nella certezza che il Regno di Dio cresce nel granello di senape. Nonostante tutto. Mi ha molto aiutato l’incontro con la comunità domenicana che vive sotto la torre Galata, nel quartiere dove risiedevano le dinastie mercantili di lingua italiana e dove si trova la vecchia Loggia del Palazzo del Comune, una costruzione ispirata a Palazzo San Giorgio di Genova. I domenicani, mi raccontano padre Antonio e padre Claudio, sono ad Istanbul dal 1228, agli inizi della loro avventura. Chiedo loro il senso della loro presenza. “Restiamo convinti che oggi, più che mai, vale la sfida di una presenza in questa terra dalla storia cristiana così ricca. È una presenza che può finalmente essere evangelica, nel senso di nascosta e capace di condivisione. Dopo secoli di penetrazione cristiana nel segno della logica coloniale delle capitolazioni, abbiamo la grande chance di rompere definitivamente con questo passato, liberi di incontrare uomini e donne in questo crocevia di popoli e razze, senza dover fare scelte di campo, privilegiando un gruppo piuttosto che un altro, lontani dalle sfere d’influenza di ambasciate e consolati o lobby economiche.” Cosa vuol dire vivere come minoranza in un contesto islamico? “Questa fedeltà alla testimonianza debole di un Dio debole e solidale con l’uomo in un mondo che sembra aver imparato a fare a meno di Lui, suona, sì, da un lato, come provocazione al limite del blasfemo, ma, da un altro punto di vista, anche come prospettiva rivoluzionaria e non priva di fascino per molti musulmani che abbiamo la fortuna di frequentare con più assiduità! Si tratta di apprendere la fecondità della kenosi, della spogliazione… è proprio nella debolezza che noi diventiamo più coscienti del fatto che Dio chiama al di là delle frontiere della Chiesa e ci radichiamo ancora di più nella missione di accogliere e condividere il dono di Dio in Gesù Cristo con e per la gente dei nostri Paesi di accoglienza e di vita.”
Parole di Vangelo che valgono per Istanbul. Parole che valgono sempre più anche per noi.