Dopo un’omelia alla messa della domenica. L’antipolitica facile e l’esempio di La Pira

Foto: Giorgio La Pira, sindaco di Firenze

Sono in giro in vacanza e entro in una chiesa per l’Eucarestia domenicale. All’omelia il prete commenta il brano evangelico del giorno. Sul finire, senza una evidente connessione con quanto detto precedentemente, avvia un pistolotto infinito, di un moralismo esasperante, sui politici che rubano, la corruzione dilagante e sulla “casta”.  Le persone attorno a me muovono la testa in segno di assenso dimostrando di apprezzare e di condividere l’intervento. Io, invece, rimango disturbato e infastidito. Ho l’impressione, netta, che, in questo modo, senza che il pretino se ne accorga, si porti acqua al fiume sempre più gonfio dell’antipolitica. Termine “con cui bisogna intendere la critica aprioristica – e proprio per questo distruttiva, eversiva – oltre del sistema politico in quanto tale, anche dell’intera vita pubblica, vista come interamente e irrimediabilmente inquinata” (Ernesto Galli Della Loggia).

E poi – mi viene da pensare mentre continua la predica – “dove siamo stati noi cristiani?”. E’ troppo facile tirarci fuori adesso, dimenticando facilmente le nostre colpe e le nostre tante omissioni. “A che servono le mani pulite se si tengono in tasca?” si chiedeva, parecchi anni fa, don Lorenzo Milani.

A SERVIZIO DELL’UOMO. È VANGELO, NON MARXISMO

Come sempre, la realtà è più complessa. Anche quella ecclesiale. Per ricordarmelo, mi chiama il prete di una parrocchia per l’inizio dell’anno pastorale. A tema vogliono che metta la figura di Giorgio La Pira. E’ una bella occasione per riprendere in mano una figura cruciale, eppure troppo dimenticata, del cattolicesimo del Novecento. Un credente tutto di un pezzo che ha avuto cura e passione per l’umano, per la città di tutti. Un cristiano che in nome della sua identità riusciva a tessere percorsi di dialogo con uomini di fedi e culture diverse. “Sono gli animali senza spina dorsale che hanno bisogno di circondarsi di un guscio”, era la frase di un personalista francese che La Pira citava volentieri. Come a dire che quando uno ha uno scheletro interno, cioè una forte personalità, tutte le chiusure cadono, lo scheletro esterno cade, non c’è più guscio. Perché non c’è contraddizione tra una forte identità e un forte dialogo.

Docente universitario, padre Costituente, Sottosegretario al Lavoro nel governo De Gasperi e poi Sindaco di Firenze. La Pira parlava della sua città come di una nuova Gerusalemme, come di una città crocevia delle culture mediterranee: sembrava etereo e lontano dai problemi amministrativi. Eppure mai come allora il mondo arabo fu vicino e collaborativo, anche in senso economico, con il mondo cristiano e occidentale. La Pira amava ricordare le tre “religioni di Abramo”, la ebraica, la cristiana, la musulmana, non dividendole ma richiamandole alla loro unità fontale. Sembrava un predicatore illuso e idealistico, eppure seppe salvare la Pignone dalla chiusura e garantire un futuro a duemila lavoratori. Come Sindaco si adoperò in particolare per favorire la ricostruzione della città, per dare un alloggio a tutti (utilizzando una legge del 1865, che permetteva la requisizione di alloggi in favore dei terremotati), per fare fronte al problema della disoccupazione. I suoi principi ispiratori sono riassunti in una sua frase rimasta celebre: “Il pane è sacro; la casa è sacra: non si tocca impunemente né l’uno né l’altra! Questo non è marxismo: è Vangelo. Principi che ha tradotto dentro un impegno politico e una posizione politica fatta di scelte di parte e di studio, di laicità e di coraggio. Polemizzando con Togliatti, segretario del Partito comunista italiano, dirà: “Quando l’On. Togliatti dice che a Firenze abbiamo fatto la politica dell’elemosina, io gli rispondo che l’elemosina la faccio in privato. Come responsabile del governo della cosa pubblica, io penso a dare strutturazione alle istituzioni, perché sia riconosciuta ad ogni uomo la dignità del suo lavoro, l’assistenza, l’abitazione, la libertà“.

“CONTEMPLATTIVO”, NEL CUORE DEL MONDO

Poverissimo – viveva nel convento domenicano di S Marco – traeva la sua forza da un autentica ispirazione evangelica, per questo ha sempre inteso la politica come servizio per il bene comune soprattutto per i più poveri e seppe unire ad un sano realismo una genuina profezia cosi che i suoi gesti utopici come venivano giudicati tracciarono quei sentieri che divennero poi le strade su cui cammina oggi la ricerca della pace.  Contemplattivo, secondo una bella definizione di don Tonino Bello,  ha coltivato per molti anni una lunga corrispondenza con le monache di clausura dei conventi fiorentini con le quali aveva stabilito un patto: loro avrebbe pregato per le intenzioni che ogni mese indicava loro e lui avrebbe pensato a sostenerle economicamente. Un’intuizione geniale per renderle partecipi alla costruzione della città. Insieme, però, ha saputo dare lavoro a chi non l’aveva, la casa ai senzatetto, dentro un disegno di sviluppo che generò la capacità di fare opere, investimenti produttivi, la riforma agraria e costituì un pezzo rilevante del miracolo economico italiano. La sua vita di cristiano – coraggioso cristiano – “senza paure di libertà di linguaggio, senza nasali lessici da seminari di studi o riviste cattoliche – fa ‘scandalo’ alle nostre logiche situazioniste e quotidiane” (Paolo Giuntella).

Se mi capita di tornare in quel paese, quasi quasi racconto la sua storia a quel prete.