In viaggio tra Israele e Palestina con il gruppo Iabbok. Per scoprire la stupenda capacità di non arrendersi

Ci sono terre che rimangono impresse così profondamente sulla pelle e nel cuore da richiedere il ritorno: è necessario tornare sui propri passi, imboccare ancora la strada che porta là, perché nonostante gli occhi abbiano visto, una volta sola non basta.

I miei amici del gruppo Iabbok ed io abbiamo risposto al richiamo, alla forza di attrazione che ci spingeva a camminare ancora, anni dopo, in quella terra così bella eppure così profondamente ferita che è la Palestina. Durante l’anno ci impegniamo, come gruppo, come giovani, come persone che non possono più dimenticare, a far sì che ciò che accade in quella terra non cada vittima del silenzio e dell’indifferenza, ma che sempre più persone, specialmente qui a Bergamo, conoscano la verità. E’ stato un anno intenso, ricco di eventi, di progetti e iniziative; abbiamo sentito la necessità di rinfrancare l’animo, di andare a caccia di segni di speranza per una giustizia possibile e raggiungibile, testimoniata direttamente dai palestinesi. Il nostro viaggio si è mosso cercando tracce di ciò che è la resilienza, la stupenda capacità di resistere e affrontare eventi traumatici con metodi positivi e adottando una scelta di vita non violenta. All’ingiustizia, alla violenza, all’espropriazione delle terre e delle risorse, allo sfruttamento dell’acqua, alla povertà imposta, alle costanti minacce, all’alto muro di 8 metri che serpeggia in Cisgiordania e spacca le famiglie, la risposta che abbiamo voluto scoprire è quella della pace, della creatività, del non arrendersi senza cedere alla rabbia.

Tra il 4 e il 13 agosto abbiamo percorso Israele e la Palestina rincorrendo e incontrando volti, scambiando due parole, ascoltando storie, toccando con mano. Abbiamo bevuto un caffè con i così detti “campeggiatori” di Kafar Bir’am, i discendenti degli abitanti del villaggio che nel 1948 sono stati allontanati dalle loro case con l’inganno e hanno poi assistito alla distruzione del villaggio da parte dell’esercito israeliano. Ora, quelle case distrutte sono ancora visibili, seppur parte di un Parco Nazionale aperto a tutti i turisti che ben nasconde la verità; ma loro, i discendenti, non rinunciano e hanno fatto di quel parco la loro nuova casa, perché il ricordo non vada perduto.

Abbiamo passeggiato ai piedi del muro nel villaggio di Bil’In con Abdallah, leader del comitato di resistenza popolare, che con metodi non violenti resiste all’espropriazione della terra e alla minaccia crescente del vicino insediamento. Così anche Nabi Saleh ogni venerdì protesta in modo pacifico, come ci hanno raccontato Bilal e Manal della numerosa famiglia Tamimi, ospitandoci nella loro casa e mostrandoci poi, da una collina, i segni di una terra ferita e minacciata.

Nei campi profughi di Aida a Betlemme, di Balada a Nablus e di Shufat’ a Gerusalemme siamo rimasti a guardare impotenti la povertà di una vita condotta nell’impossibile, tra l’odore emanato dalle discariche a cielo aperto, tra le case ammassate l’una contro l’altra in vicoli stretti e sporchi, nella mancanza di servizi adeguati e di spazi aperti. A Balada la madre di Inptisan ci ha raccontato cosa ha significato la Nakba per lei: aveva solo 7 anni quando è stata costretta ad abbandonare la sua casa. Adesso vive nel campo profughi e il ricordo delle verdi colline è conservato nella sua memoria.

Ci siamo spostai nella Valle del Giordano e il mito di una terra fertile e rigogliosa è crollato scontrandosi con la realtà che si è aperta davanti ai nostri occhi: una terra fragile e sfruttata, ridotta a sabbia e roccia, dove l’acqua è costantemente rubata ai villaggi, sotto il controllo dello stato di Israele. Segno di una stupenda resilienza è però la macchina costruita da Rached, del movimento jordan valley solidariety, presso il villaggio di Fasa’il: utilissima per fabbricare i mattoni, utilizza il materiale derivato dall’abbattimento delle case da parte dell’esercito, ricostruendo il villaggio dalle sue ceneri.

E poi ancora Daod, fondatore di Tent of Nations, una collina a sud-ovest di Betlemme circondata dagli insediamenti israeliani che resiste attraverso la cura della terra ed uno sviluppo eco sostenibile, alimentando l’attenzione internazionale e ospitando ogni anno numerosi viaggiatori stranieri, pronti a coltivare la terra con alberi da frutto e, in futuro, anche una vigna.

Sono stati così tanti i volti che chiudendo gli occhi appaiono nella mia memoria: le donne di Hebron, la città pugnalata al cuore da un insediamento, e la loro fabbrica di Kefiah, ancora cucite a mano, con metodi tradizionali; l’amico Ramez e gli abitanti di Abud, con abuna Youssef e abuna Hannah; i fratelli Dana, Rana e Ahmed del campo profughi di Shufat’, giovani ospiti a Bergamo tre mesi fa che come noi nutrono il sentimento di scoprire il mondo, nonostante le difficoltà; suor Aziza e suor Agnese, le instancabili suore comboniane che si battono per i diritti dei beduini; il così detto “sindaco di Gerusalemme”, la guida palestinese del quartiere africano della città che ci ha mostrato la Gerusalemme nascosta, camminando lentamente tra i vicoli lastricati di pietre antiche così piene di contraddizioni; la giovane giornalista di Nena News Chiara Cruciati, nostra guida e mediatrice e come dimenticare il nostro coraggioso autista Fawasi, sorridente e spiritoso. E poi, poi ci sono tutti quei volti incrociati frettolosamente, di sfuggita, presso il checkpoint di Betlemme quando ancora il sole non era sorto. Volti di uomini e donne in cammino per recarsi al lavoro, al di là del muro, in Israele, uno dietro l’altro, in una fila silenziosa, che dimostrano la loro resistenza scegliendo ogni giorno di non arrendersi mai.

Il viaggio è stato vissuto insieme, come gruppo di amici, come gruppo di giovani guidati da don Emanuele Personeni e don Enrico d’Ambrosio. Abbiamo scoperto in passato che la Palestina è una terra di ferite, di sofferenze, di squarci nella carne e la prima volta che si siamo imbattuti in essa i nostri occhi si sono riempiti di rabbia e desiderio di cambiare la situazione. Gli occhi di guarda per la seconda volta, invece, scoprono che l’unica nostra possibilità, noi passeggeri temporanei, è di prendersi cura delle persone che abbiamo incontrato, perché lì, in quella terra, la speranza esiste, anche se a volte scovarla tra le ingiustizie, tra le lacrime di un popolo e i racconti dolorosi sembra quasi impossibile.

Una viaggio che ha lasciato un segno dentro noi semplici viaggiatori, che probabilmente dovrà essere ancora chiarito, scoperto, analizzato, sciolto. Per questo motivo non posso parlare per i miei compagni di viaggio, ma sento di poter dire con sicurezza che tutti abbiamo percepito la più grande testimonianza di resilienza da un gesto semplice e puro, spontaneo e sincero, capace di sciogliere il cuore: il sorriso dei bambini beduini della scuola del villaggio di Tabna. Lì, tra la polvere e la sabbia, tra le case pericolanti di lamiera e cartoni, il caldo soffocante del deserto, l’ospitalità e il riconoscimento sono stati i maggiori. Il capo delle 27 famiglie beduini della zona di Khan Al’mabr ci ha accolto con gentilezza e attenzione, incaricandoci di ringraziare tutti i sostenitori e promotori del progetto “Tutti a Scuola in Terra Santa”, che ha permesso la costruzione di 7 scuole per i bambini beduini. C’è ancora molto da fare, i soldi non sono mai abbastanza per permettere loro di continuare a vivere secondo le loro tradizioni, radicati in una terra che aspetta loro di diritto, nonostante le continue minacce di demolizione.

Eppure, in tutto questo, torno a dire che la speranza c’è: il sorriso di quei bambini ci ricorda che il tempo che investiamo per la Palestina, seppure qui, a Bergamo, a chilometri di distanza, nella tranquillità della nostra vita normale, ecco, non è mai sprecato.