L’autonomia nella scuola. Il rischio è di aggravare i difetti, non di correggerli

Ricomincia la scuola, ma le polemiche scolastiche non si sono mai fermate. L’anno che riprende in questi giorni è il primo segnato dalla riforma Renzi-Giannini, entusiasticamente targata “Buona scuola”, nonostante le riserve di chi nella scuola lavora davvero, da anni, ogni giorno. Sul provvedimento governativo si è già parlato tanto, forse troppo, ma esso offre lo spunto per tornare a riflettere su un principio, quello dell’autonomia, da cui molto spesso e in àmbiti diversi i nostri politici si fanno tentare, non sempre a ragione.
Ciò che ha ispirato il governo è, fondamentalmente, l’idea che un miglioramento complessivo del sistema scolastico italiano passi da un incremento dell’autonomia, dei singoli istituti e di chi li guida. Negli intenti della riforma, la scuola deve assomigliare sempre di più a una piccola azienda, guidata da un manager libero da lacci e lacciuoli, coadiuvato da un consiglio di rappresentati delle diverse componenti scolastiche (studenti, docenti, insegnanti), che dispensa premi e punizioni ai suoi dipendenti. Due gli intenti: innescare un processo virtuoso di competitività tra istituti, sul modello della concorrenza tra imprese nel libero mercato; favorire la differenziazione delle scuole in base alle esigenze a cui ognuna deve rispondere nel contesto sociale, territoriale ed economico in cui si trova. Nel migliore dei mondi possibili l’idea non sarebbe sbagliata; ma nel nostro mondo, che non è dei migliori possibili, ci accorgeremo ben presto che le cose andranno diversamente.
Il primo problema è a monte: l’intera costruzione poggia sulla figura del preside-manager. Peccato sia una figura che non esiste, perché i presidi attuali sono formati e selezionati secondo criteri in larga misura burocratici. Come farà ad essere manager un funzionario a cui, probabilmente, mancano l’intuito e il coraggio, la fantasia e le motivazioni di un vero manager?
Il difetto della riforma è però nel manico, ed è dettato proprio da quell’autonomia che si vorrebbe perseguire. La cronaca e la storia del nostro Paese dimostrano che ogni decentramento di potere è un problema, non una soluzione: si è demandato agli enti locali la tutela del territorio ed ecco gli scempi al paesaggio, si sono delocalizzati i poteri amministrativi ed ecco gli sperperi e le ruberie, le assunzioni clientelari e familistiche. Solo ingenui idealisti, o politici in malafede, possono pensare che nella scuola avverrà qualcosa di diverso: davvero i presidi, nel selezionare e nello scegliere, saranno liberi, soprattutto in zone delicate, da condizionamenti e interessi, raccomandazioni e legami? Davvero sapranno guardare alla qualità professionale dei docenti, o piuttosto si fermeranno a umori e sensazioni, facendo della propria scuola un prodotto ad uso e consumo dei clienti, per non perdere “audience” e finanziamenti?
È curioso che si presenti come miracolosa medicina quella che è una malattia endemica italica: l’autonomia è un principio giusto in territori caratterizzati da una forte coesione sociale, non in Paesi malati di campanilismo e a doppia velocità. Non passa giorno in cui non si lamenti la differenza di preparazione tra gli studenti settentrionali e quelli meridionali, eppure gli interventi governativi sembrano procedere in una direzione opposta: non si tenta di ridurre la disuguaglianza, ma la si aggrava; lo Stato non riafferma la propria autorità, ma declina le responsabilità, forse per ingenuità, forse per incapacità.
La riforma dà esultante il colpo di grazia al disegno gentiliano di scuola italiana, un progetto in realtà di largo respiro, macchiato dal contesto in cui fu partorito ma sostanzialmente valido nelle finalità: l’idea di una scuola nazionale, sottratta all’arbitrio e alle bizzarrie di ras locali, affonda le radici nel sogno risorgimentale, quando fatta l’Italia bisognava fare gli Italiani. L’Italia è fatta da più di centocinquant’anni, ma fare gli Italiani resta un obiettivo tutt’altro che raggiunto, ancora attuale. Con questa riforma, temo sarà meno raggiungibile e meno attuale.