Vedere oltre, una questione di fiducia. C’è chi sale, come il governo Renzi, e chi scende: la Volkswagen

Negli ultimi anni è cresciuta l’attenzione sul tema della fiducia da parte della politica, delle istituzioni e delle aziende. La fiducia è un indicatore estremamente importante perché rappresenta un’apertura di credito verso il futuro.

In situazioni di elevata fiducia i cittadini sono più disponibili ad affrontare processi di cambiamento, a sostenerli con il loro consenso.
Quanto al mondo delle imprese, nelle situazioni di fiducia elevata si registra una maggiore propensione al consumo da parte dei cittadini, a valutare prodotti nuovi e servizi nuovi e così via. Sono atteggiamenti che possono favorire la crescita delle aziende consentendo loro di aumentare la propria clientela e di consolidare quella esistente.

L’enfasi posta sul tema della fiducia è alla base delle ricerche sul cosiddetto “sentiment” dei cittadini. In Italia l’indice più famoso è quello elaborato dall’Istat. Si tratta dell’indice di fiducia del consumatore che viene rilevato mensilmente attraverso diverse domande che vanno dal clima economico, cioè la percezione dell’andamento dell’economia del Paese, al clima personale, ossia le previsioni riguardanti la propria situazione economica.

Ebbene, l’indice Istat in tutto il 2015, nonostante presenti un andamento altalenante, si colloca su valori nettamente superiori a quelli registrati in tutto il 2014. Ciò significa che gli italiani sono più fiduciosi, anche se permane una larga preoccupazione per la crisi e i suoi effetti.

L’analisi dei diversi “barometri” sulla fiducia dei cittadini evidenzia un fenomeno che rappresenta un tratto tipico del nostro Paese. Si tratta dello “strabismo” con cui si guarda all’Italia e alla propria situazione: i nostri connazionali infatti giudicano più negativamente la situazione del paese rispetto a quella personale. Nelle interviste che realizziamo spesso ci sentiamo dire “il paese va a rotoli ma io nel mio piccolo me la cavo”

Come si spiega questo strabismo? Ci sono due spiegazioni. La prima ha a che fare con le strategie adottate con successo da molti italiani per far fronte alla crisi. I consumatori sono diventati più avveduti, selettivi e razionali nei processi di acquisto; hanno fatto sacrifici, cercando di non rinunciare alla qualità, hanno iniziato a sperimentare nuovi modelli di consumo più sobri ma anche più “smart”. Insomma, si sentono virtuosi e si compiacciono dei risultati ottenuti. L’altra spiegazione riguarda il dominio delle percezioni sulla realtà: i cittadini tendono a rappresentare le condizioni economiche dell’Italia in termini molto peggiori rispetto alla situazione reale, pensano che siamo in declino, che rischiamo di finire come la Grecia, sebbene il PIL degli ellenici corrisponda grosso modo a quello di una regione del nord Italia e nel nostro paese, il secondo manifatturiero d’Europa, siano presenti oltre 4,4 milioni di imprese e tra queste, quelle che esportano sono in crescita costante, anche durante la crisi.

Nonostante i giudizi sul Paese siano più negativi che positivi, l’indice di fiducia dunque aumenta: sembra che gli italiani incomincino a vedere la luce in fondo al tunnel della crisi: il PIL è in crescita oltre le previsioni (dopo un lungo periodo di recessione), la disoccupazione sta leggermente diminuendo, i consumi fanno segnare una lieve crescita. Con l‘aumento della fiducia, a partire da mese di settembre si registra anche una ripresa di fiducia per il Governo, dopo diversi mesi in cui era significativamente diminuita, non diversamente da quanto era avvenuto con i precedenti governi dopo 9-12 mesi dall’insediamento.

Si tratta di un’inversione di tendenza in un contesto caratterizzato da una vistoso calo di fiducia nelle istituzioni, in particolare quelle di rappresentanza. Vediamo qualche dato in dettaglio tra quelli rilevati da Ipsos: solamente il 17% degli italiani dichiara di avere fiducia nei partiti, il 38% nelle regioni (in forte calo dopo gli scandali sui rimborsi elettorali e le polemiche sugli sprechi), il 48% nei comuni. La fiducia nel governo sale al 37% dal 32% di luglio, ma è in forte calo rispetto al picco del 70% registrato dopo il successo di Renzi e del PD alle elezioni europee del 2014. La fiducia nei sindacati si attesta al 32% e fa riflettere, tenuto conto che il tema dell’occupazione è in cima alla graduatoria delle priorità degli italiani.

E ancora, un calo di fiducia vistoso ha investito l’Europa che oggi raggiunge il valore più basso di sempre (42%). Basti pensare che prima del referendum greco del luglio scorso si attestava al 50% e prima della crisi greca del 2011 era pari al 70%. Per non parlare della vigilia della nascita dell’Euro: allora 9 italiani su 10 avevano fiducia nell’Europa. Ma di chi si fidano oggi gli italiani?
Si fidano delle istituzioni di garanzia (polizia, carabinieri, forze armate, presidenza della repubblica, magistratura), della Chiesa (soprattutto dopo l’elezione di papa Francesco) e delle associazioni di volontariato, con valori che si collocano tra il 55% e 75%.

E si fidano delle imprese: la contrazione della fiducia nella politica, infatti, ha portato i cittadini a dirottare sulle imprese le loro aspettative di uscita dalla crisi. E nel contempo le imprese hanno messo al centro delle loro strategie la responsabilità sociale che si traduce in correttezza, eticità, trasparenza, rispetto e valorizzazione dei dipendenti, sostenibilità ambientale, attenzione al territorio in cui operano.

Alla luce di queste dinamiche lo scandalo che ha investito la Volkswagen questa settimana può avere effetti a macchia d’olio perché i cittadini, sempre più disillusi e scettici, pur mostrando più fiducia per le imprese che per la politica non sono disposti a perdonare le aziende che non rispettano le regole e voltano loro le spalle. Ma il vero rischio è la generalizzazione: la sfiducia potrebbe riverberarsi sull’intero mondo delle imprese, vanificando i loro investimenti sulla loro reputazione e trasformando i valori aziendali, i codici etici e deontologici e i processi di certificazione alla stregua di strumenti di propaganda, finzioni prive di valore.
E tutto ciò può avere conseguenze pesanti sulla fedeltà alle marche, sui loro bilanci aziendali e per le società quotate in borsa, sull’andamento dei loro titoli.