Imprenditori immigrati: una ricchezza. In Italia sono oltre seicentomila

È sbagliato ridurre la presenza delle persone straniere all’emergenza, sbagliato alimentare la paura. Per questo noi cogliamo l’occasione per raccontarvi invece della ricchezza che gli imprenditori migranti portano nel nostro Paese,  approfondendo i risultati di uno studio della Fondazione Moressa.

«La regione italiana nella quale sono maggiormente concentrati gli affari degli immigrati imprenditori è la Lombardia (20,8%), confermando il rapporto tra ricchezza del territorio e attrattività nei confronti degli stranieri. Seguono il Lazio (11,7%) e l’Emilia Romagna (9,2%). È curioso osservare come oltre la metà degli imprenditori stranieri in Italia si concentri nelle prime quattro regioni», precisa Chiara Tronchin, ricercatrice della Fondazione Leone Moressa, Istituto di studi e ricerche nato nel 2002 da un’iniziativa dell’Associazione Artigiani e Piccole Imprese di Mestre Cgia, che ha analizzato i dati che si riferiscono agli imprenditori nati all’estero registrati presso il sistema delle Camere di Commercio Nazionali. La Fondazione ha acquisito specifiche qualifiche e competenze legate allo studio del fenomeno migratorio indirizzato in maniera prevalente ai temi dell’economia dell’immigrazione nel nostro Paese. «Il tema dell’immigrazione va affrontato a nostro avviso in termini oggettivi di convenienza per il nostro Paese. Le campagne mediatiche guidate dalla paura e da sentimenti di odio e insofferenza, rischiano di perdere di vista la complessità di questo fenomeno e la sua portata anche in termini di valore aggiunto. Naturalmente le trasformazioni mettono le società anche di fronte a delle problematiche. Tuttavia, resta vero che tanto più la conoscenza del fenomeno “immigrazione” rimarrà a uno stato superficiale, tanto maggiori saranno le difficoltà che si possono incontrare nell’approcciarsi a un’area tematica tanto variegata. È giunto quindi il momento di riconoscere la popolazione immigrata non più come un problema da arginare ma come una componente ineliminabile della società contemporanea, la quale, al pari di tutte le altre, presenta delle caratteristiche e delle esigenze specifiche».

Dall’analisi emerge il peso crescente di questa componente, giunta nel 2014 a quota 630 mila unità, pari all’8,3% degli imprenditori totali. Dottoressa Tronchin, desidera commentare questi dati?
«La crescita imprenditoriale straniera nel nostro paese non deve stupire, in quanto è il naturale evolversi di un processo di integrazione. Basti pensare, ad esempio, allo sviluppo delle imprese più innovative della Silicon Valley, caratterizzate proprio dalla presenza di ingegneri indiani o cinesi. La stessa Commissione Europea, nel Piano d’Azione Imprenditorialità 2020, ha attribuito agli imprenditori migranti un ruolo importante per il rilancio dell’Unione e del suo sistema economico-produttivo, riconoscendo e sottolineando, per la prima volta, l’importanza del loro contributo all’imprenditorialità. Le opportunità dell’imprenditoria straniera per il paese ospitante sono molteplici: dall’occupazione creata (con benefici anche per l’indotto), alla nascita di nuovi servizi rivolti prima ai connazionali e poi anche agli autoctoni, alla possibilità di costruire “ponti” con i paesi d’origine e attrarre nuovi investimenti».

In quali attività sono presenti le imprese straniere e da dove provengono i loro titolari?
«I principali settori per presenza di imprenditori nati all’estero sono il commercio (34,5%), le costruzioni (22,2%) e i servizi alle imprese (15,6%). Osservando la variazione % nel periodo 2009-2014, spiccano il +30,0% degli imprenditori del commercio e il +36,0% nella ristorazione. Le prime tre nazionalità degli imprenditori stranieri in Italia sono Marocco (10,9%), Cina (9,9%) e Romania (9,6%). La frammentarietà dell’immigrazione in Italia si esprime anche nell’imprenditoria, con la presenza di oltre 200 nazionalità diverse. Tuttavia, le prime 10 nazionalità rappresentano oltre il 60% del totale».

Mentre gli imprenditori nati in Italia negli ultimi cinque anni sono diminuiti del 6,9%, quelli nati all’estero sono aumentati del 21,3. Come spiega questi dati?
«I nati all’estero sembrano essere più flessibili alle richieste del mercato rispetto agli italiani, ma esistono anche altri meccanismi che portano alla crescita dell’imprenditoria straniera nel nostro Paese. In molti casi è “l’evoluzione” dell’operaio che dopo aver imparato il “lavoro” inizia l’avventura imprenditoriale. La scelta imprenditoriale è quindi un modo per avere un reddito maggiore oppure può essere dovuta alla necessità di non perdere il permesso di soggiorno. Si tratta in ogni caso di persone che si sono inserite o si stanno inserendo pienamente nel tessuto economico e sociale riuscendo a prendere confidenza con il quadro normativo e con la tipologia di lavoro».

Nonostante la crisi economica, i migranti titolari o soci d’impresa quindi portano linfa vitale alla nostra economia?
«I dati testimoniano la crescente importanza dell’imprenditoria straniera nel sistema produttivo italiano. Una realtà in crescita in tutte le regioni e in tutti i settori, che non solo può rappresentare un contributo fondamentale per l’uscita dalla crisi, ma che non può essere più considerata solo una nicchia di bassa produttività bensì un veicolo utile a creare sinergie con gli imprenditori locali e ad attrarre investimenti esteri».

Quali sono le maggiori opportunità che l’imprenditoria straniera offre al nostro Paese? Per esempio gli imprenditori stranieri salvano mestieri in via di estinzione?
«In alcuni casi gli imprenditori stranieri si sostituiscono agli italiani per salvare mestieri più “artigianali”. Ad esempio nel comparto orafo di Arezzo, che da sempre coinvolge l’imprenditoria straniera, il fenomeno è in crescita a differenza degli imprenditori italiani. La maggior parte di questi imprenditori proviene da Pakistan e Bangladesh e ha la tendenza di coinvolgere nella lavorazione e nella compagine aziendale i parenti o connazionali, promuovendo in questo modo la diffusione del mestiere e del numero di imprenditori. In altri casi si creano nuove tipologie aziendali che offrono servizi meno tradizionali».

In tre anni, tra il 2010 e il 2013, il numero dei conti correnti intestati a imprenditori immigrati in Italia è aumentato del 42%, per un totale di quasi 105.500 titolari. Ciò conferma che la popolazione straniera è sempre più attiva nel lavoro autonomo?
«Certamente la crisi ha influito molto sulla struttura occupazionale degli stranieri in Italia: tra il 2007 e il 2013 il tasso di occupazione degli stranieri è, infatti, sceso dal 67,1% al 58,1%, una contrazione superiore a quella registrata per gli italiani (dal 58,1% al 55,3%). Questo può sicuramente aver incentivato la propensione al lavoro autonomo, considerando che il lavoro è una condizione fondamentale per il soggiorno in Italia. Tuttavia, la crescente familiarità degli stranieri con strumenti finanziari e bancari rappresenta anche un segnale di integrazione: non a caso, sono sempre di più gli istituti bancari che hanno colto questa opportunità introducendo prodotti ad hoc per i cittadini stranieri».

La Vostra ricerca fa piazza pulita della retorica xenofoba diffusa un po’ in tutta Europa che spesso considera l’immigrato solo come un peso a carico del welfare?
«Nell’attuale contesto di crisi economica, uno degli argomenti al centro del dibattito sull’immigrazione riguarda il rapporto tra costi e benefici per l’Italia della presenza straniera. Una stima fatta dalla Fondazione Leone Moressa relativamente all’anno 2012, illustra il reale impatto dell’immigrazione dal punto di vista finanziario. Il gettito fiscale e contributivo versato dagli occupati stranieri ammonta a 16,5 miliardi di euro. La spesa pubblica riconducibile agli utenti stranieri (comprensiva di: pensioni, sanità, scuola, spese per l’integrazione e l’accoglienza, giustizia, ecc.) si attesta invece a 12,6 miliardi: un saldo attivo per le casse dello stato di 3,9 miliardi di euro. Non solo: i 12,6 miliardi di spesa per l’immigrazione incidono solo per l’1,56% sugli 800 miliardi di spesa pubblica complessiva, sfatando il mito del costo dell’immigrazione».