Dove sarebbe oggi Simone Weil? Accanto agli ultimi. Non aveva paura dell’assoluto

DOVE SAREBBE OGGI SIMONE WEIL? Simone Weil è stata una filosofa francese vissuta a cavallo fra le due guerre mondiali (1909-1943) e morta giovanissima, all’età di 34 anni. Per alcuni sconosciuta, per altri il più acuto filosofo del Novecento, in questi anni sta tornando in auge, grazie anche al periodo storico che stiamo attraversando. Ieri sera, all’auditorium di Torre Boldone, il pedagogo e docente universitario Ilvo Lizzola ha ricostruito la sua eccentrica e poliedrica figura all’interno della rassegna «Molte fedi sotto lo stesso cielo». A febbraio, per chi fosse interessato, verrà inoltre messo in scena «La volontà. Frammenti per Simone Weil» di César Brie al teatro sociale.
VITA
È una vita sotto il segno dell’accelerazione, quella della Weil, straripante di brevi e intense esperienze. Tutta la sua anima percepisce l’urgenza di rispondere alle sollecitazioni di un tempo attraversato dalla violenza e dalla barbarie dei totalitarismi, si sente investita di una responsabilità morale, politica e intellettuale. Questa tensione ricadrà poi nel proprio corpo, colpito da forti emicranie fin dall’infanzia. La necessità spirituale di rifiutare di vivere sopra il livello consentito a chi viveva nella sventura, la porterà a mangiare la quantità di una razione giornaliera di un soldato fino a rifiutare persino il cibo e le cure mediche in fin di vita, prostrata dalla tubercolosi. «La più alta forma di generosità è l’attenzione», scriveva. E per «essere attenta» Simone Weil lascia il suo impiego come professoressa di filosofia alle allieve di un liceo di provincia e diventa operaia specializzata alla Renault, scoprendo le condizioni di vita degli operai e partecipando alle manifestazioni, entra come miliziana nella Colonna anarchica Buenaventura Durruti contro il regime franchista (pur dedicandosi ai lavori di cucina), uscendo delusa dalla guerra (comunque inevitabile contro Hitler) e riprendendo a scrivere i suoi diari. In seguito viaggia in Italia, legandosi all’esperienza della sequela cristiana grazie alla figura di Francesco d’Assisi, è attivista contro il regime di Vichy, scrive ancora in un campo di profughi ebrei a Casablanca, poi a New York, dal fratello matematico ed infine entra nell’organizzazione France Libre a Londra, dove morirà. Simone Weil è una donna di pensiero che decide di passare all’azione, perché solo attraverso gesti concreti si può giungere a farsi toccare dalla verità, accanto agli uomini nella miseria e nella sofferenza, e grazie a questa consapevolezza faticosamente ottenuta, si può trovare l’ispirazione per come vivere lì dentro e corrispondere. Non fa mai questioni di genere e punta sempre all’essenziale, come quando afferma: «Non ho tempo di pregare», l’unica preghiera che faceva era il Padre Nostro in greco, ogni mattina, ma per lei «la più pura forma di attenzione è la preghiera». Un giorno ripete il Padre Nostro lungo tutto il giorno e sente la presenza di Dio, che la riempie di dolcezza e di verità infinita. Diventa un vero e proprio sacramento: «Non ho mai pregato ma accolgo con amicizia il tempo e la vita che tutti i giorni mi viene data».
FONTI E SOCIETÀ
Il dialogo serrato tra il pedagogo Lizzola e la filosofa attivista Weil, ricco di spunti di riflessione e di emozioni, ha tenuto sospeso il pubblico di mezza età fino alla fine. Nel suo intervento Lizzola si è fatto guidare principalmente da quattro libri, ritenendoli attuali: «attesa di Dio»; «la rivelazione greca»; «la persona e il sacro», l’ultimo scritto dalla Weil prima di morire, nel 1943 in un sobborgo di Londra; «la prima radice», originariamente intitolato «Preludio ad una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano», in cui si impegna a porre i fondamenti della ricostruzione della Francia dopo la catastrofe. Cerchiamo dunque di scoprire perché si ritiene Simone Weil così attuale. E soprattutto: dove sarebbe, oggi, (in Italia, in Europa, ma come abbiamo visto anche nel mondo) quest’instancabile resistente, sempre presente dalla parte degli esclusi? Ilvo Lizzola ci aiuta facendoci pensare alla società contemporanea: «È l’epoca dell’etica a cielo aperto e del pluralismo, si risponde a pulsioni, paure immediate, in una composizione troppo rapida della forza». È necessario ritrovare i fondamenti del nostro rapporto col nostro tempo, ma anche delle biografie di donne e uomini, delle loro esperienze e dell’assoluto. Quattro i fili colorati scelti dal pedagogo per discernere il pensiero della filosofa, che potremmo racchiudere in tre dicotomie: attesa e forza, obbligo e diritto, impersonale e personale.
PENSIERO
«Dalla prima infanzia sino alla tomba qualcosa in fondo al cuore di ogni essere umano, nonostante tutta l’esperienza dei crimini compiuti, sofferti e osservati, si aspetta invincibilmente che gli venga fatto del bene e non del male. È questo, anzitutto, che è sacro in ogni essere umano». Questa sacralità sembra non venir rispettata nelle «istituzioni intermedie», ossia tutte le forme di organizzazione umana: politica, economia, giurisprudenza, educazione e così via. Qui domina la forza, ossia la logica del riequilibrio e della negoziazione, anche di beni, a fini buoni, della giustificazione e delle contraddizioni. Esse tradiscono i valori degli uomini e ne dispongono come oggetti. E ancora: «Lei non mi interessa. Un uomo non può rivolgere queste parole a un altro uomo senza commettere una crudeltà e ferire la giustizia. […] In ogni uomo vi è qualcosa di sacro. Ma non è la sua persona. E neppure la persona umana. È semplicemente lui, quell’uomo». Solo noi possiamo porre un limite morale all’arbitrio della forza nell’ordine sociale, esistente sia nelle democrazie, timidi contenimenti della forza, che nei totalitarismi. Come? Provando compassione verso tutti e se stessi, difendendo l’umanità di tutti, scambiandoci e donandoci la dignità, riconoscendo l’unicità. Lizzola: «In ogni azione quotidiana ci è chiesto di compiere l”azione perfetta’, quella pura e priva di contraddizione, efficace, anche se non risolutiva, che rinvia ad altro. Si può comunicare il bene pur con la fragilità. Non c’è tempo, bisogna rischiarla subito. Si fa ascoltando con attenzione i gemiti e i fremiti di ognuno, soprattutto quelli che si affidano. Dio ha abdicato, ha lasciato che apparisse un mondo distante da lui nel quale può rientrare come mendicante avendo rinunciato a esserne il re. Prendiamo contatto con l’attesa di Dio e possiamo corrisponderci». Noi non facciamo il bene, facciamo insieme anche il male a causa della logica della forza, del limite e della necessità. È Dio, secondo la Weil, che salva il bene nella relazione, noi possiamo anticiparne la presenza. Accostandoci alla realtà dell’altro, che ci è consegnato, possiamo entrare nell’attesa: «È un gesto di ritrazione massimo, che cerca la perfezione e attende un compimento, diciamo che è un appuntamento, un gesto non troppo intenzionale o espressione di sé: un’azione ricettiva, passiva, fare una cosa stando attenti alla vita che si fa, lasciando che venga da lì dentro ciò a cui si è chiamati, una novità di vita per cui sorprendersi…Sussultare». «La nozione di obbligo sovrasta quella di diritto, che le è relativa e subordinata. Un diritto non é efficace di per sé, ma solo attraverso l’obbligo cui esso corrisponde; l’adempimento effettivo di un diritto non proviene da chi lo possiede, bensì dagli altri uomini che si riconoscono, nei suoi confronti, obbligati a qualcosa. […] I diritti appaiono sempre legati a certe condizioni. Solo l’obbligo può essere incondizionato. Esso si pone in un campo che è al di sopra di ogni condizione, perché é al di sopra di questo mondo». Si situa nel mondo dell”impersonale («tutto ciò che nell’uomo è impersonale è sacro, e nient’altro lo è») come la bellezza (impersonale nell’arte) e la verità (impersonale nella scienza). La logica del diritto, e quindi dello scambio presiede invece al personale, nel cui ambito sono anche scienza, arte, letteratura e filosofia. Secondo la Weil dovrebbero esserci delle «istituzioni superiori» capaci di mandare al potere in funzioni di responsabilità uomini che sanno continuamente ascoltare il grido di richiesta di bene, anche quello muto, da qualunque parte provenga. Sarebbe necessaria una selezione della classe politica che esercitasse solo la forza necessaria e da mettere sotto osservazione continua da parte delle istanze sovrapersonali, lasciando agli uomini gli spazi di agire oltre le logiche del riequilibrio. Norma e sovranorma si trovano entrambe così legittimate. «Le relazioni tra gli uomini non devono per forza essere sempre nella norma, ma si facciano nella ‘tessitura continua’ mediante cura, dedizione dell’uno con l’altro, preferenza. Nessuno deve essere dimenticato».
La Weil ospita il malheur nella sua esistenza e ci interroga. La sua vita di innumerevoli studi e avventurosa azione ci sprona a metterci alla prova, ma qualcuno, in sala, si chiede se saremo all’altezza: -Cosa me ne faccio ora del mio volontariato?-. La professoressa che scriveva lettere alle allieve per spronarle a vivere la miseria uno o due anni, accanto a chi era costretto a una vita di prova, non si dimentica di noi. «Bisogna farsi infinitamente piccoli, come un granello di senape», invisibili nella quotidianità, e compiere gesti educativi che provochino uno sguardo di ritorno. In questo modo ci può essere rivelata una novità di vita con cui orientare il nostro pensiero alla realtà impersonale, proprio come faceva Simone Weil. A proposito, avete scoperto dove si è nascosta?