Più forti dell’odio. Le vittime di Parigi e i monaci di Tibhirine

Foto: un’immagine del film “Uomini di Dio” di Xavier Beauvois

Le notizie e le immagini provenienti da Parigi mi hanno fatto tornare alla mente un libro, da rileggere, e un film, da rivedere.

“PIÙ FORTI DELL’ODIO” E “UOMINI DI DIO”

Il libro ha per titolo “Più forti dell’odio” ed è stato pubblicato da Qiqajon, la piccola casa editrice del monastero di Bose; il film è “Uomini di Dio” di Xavier Beauvois. Entrambi narrano la vicenda accaduta quasi vent’anni fa, nella notte fra il 26 e il 27 marzo 1996, quando un commando armato entrò nella Trappa di Tibhirine, sulle montagne dell’Atlante in Algeria, e prese in ostaggio sette dei nove monaci trappisti presenti. Il 30 maggio presso Medea furono ritrovate le teste dei monaci, assassinati. I corpi non furono mai più ritrovati.

Ma chi erano questi monaci, tutti di nazionalità francese? Un figlio di un militare, un medico, un ex sessantottino, un contadino, un prete educatore di strada, un idraulico e un insegnante. Storie diverse, di uomini diversi per carattere e formazione. In comune avevano solo il fatto di aver scelto Dio e la vita monastica, in una trappa a novanta chilometri da Algeri.

UN CRISTIANESIMO DELLA VICINANZA

La vita cenobitica, che il film restituisce nella serenità della compagnia come nell’asprezza delle diversità, è un agente lievitante che li educa a non avere paura dei “fratelli della montagna” (i terroristi) e dei “fratelli della Pianura” (l’esercito). Celebrare, coltivare, chiacchierare, curare, ascoltare sono solo alcuni dei verbi che i monaci vivono con la gente semplice e indifesa del luogo. Tutti mussulmani. Dai testi scritti come dalle azioni quotidiane riproposte dal regista, quello dei monaci di Tibhirine è un cristianesimo del segno e della vicinanza. L’accudire fraterno della famiglia cistercense nei confronti della comunità islamica non ha accenti di proselitismo.

Una comunità plurale, quella dei monaci, che giungerà, a poco a poco, e non senza un confronto dialettico, alla decisione – unanime – di rimanere e non mettersi in salvo. Perché  “noi siamo gli uccelli, ma voi siete il ramo su cui gli uccelli si posano”, afferma una donna algerina con altri musulmani nei confronti del priore della comunità, frère Christian, alla ricerca dei segni di Dio sulla strada da prendere.

“COME SE AVESSE AMMAZZATO TUTTI GLI UOMINI”

Molta impressione aveva provocato in tutti loro il massacro di “dodici uomini, dodici fratelli, cittadini della ex Jugoslavia”, che il martedì 14 dicembre 1993 erano stati sgozzati all’arma bianca, perché croati e cristiani, a pochi chilometri dal monastero. I monaci ne scrivono agli amici: “Bisognerebbe narrare l’umiliazione di tutti quelli che, nel nostro ambiente, hanno percepito questo massacro come un’ingiuria fatta all’islam che professano, e questo per il duplice motivo dell’innocenza indifesa e dell’ospitalità concessa. Molti hanno voluto far riferimento al versetto coranico che afferma: “Chi ammazzerà un uomo innocente dell’altrui sangue e che mai aveva commesso delitti sulla terra, sarà considerato come se avesse ammazzato tutti gli uomini” (Corano 5, 32)”.

LE OPERE DI MISERICORDIA VISSUTE

Per i monaci di Tibhirine il Vangelo non è una questione numerica ma una dichiarazione d’amore nei confronti del popolo algerino. Evidente in modo straordinario nel testamento di frère Christian, uno dei documenti spirituali più significativi di tutto il Novecento: “La mia vita non ha più valore di un’altra. Non ne ha neanche meno. In ogni caso, non ha l’innocenza dell’infanzia. Ho vissuto abbastanza per sapermi complice del male che sembra, ahimè, prevalere nel mondo, e anche di quello che potrebbe colpirmi alla cieca”. Come ha ben fatto notare Elio Boscaini guardando il film e, soprattutto, leggendo il libro si scopre che questi monaci hanno messo in pratica, a partire dal loro monastero, i sei punti del giudizio finale cosi come li troviamo nel capito 25 del Vangelo di Matteo: dar da mangiare a chi ha fame e da bere a chi ha sete, accogliere lo straniero, vestire chi è nudo, assistere e curare gli ammalati, visitare i prigionieri. Non sembrerebbe – si chiede Boscaini – “un programma ottimo per una globalizzazione solidale?”

E Enzo Bianchi, che cura la prefazione del testo, scrive cosi: “In un momento in cui molti pensano all’islam come nemico, il gesto di chi si lascia sgozzare amando il proprio carnefice è l’estremo rifiuto della logica dell’inimicizia, è l’unico atto che può portare fine alla catena delle rivalse e delle vendette. È il caso serio del cristianesimo… Con il martirio un cristianesimo che sembra incapace di comunicare agli uomini d’oggi ritrova improvvisamente la forza di suscitare domande e di inquietare le coscienze”.