Pane e noci. Anselmo, le luminarie, l’elettricista. Un misantropo costretto alla festa. E il sapore dolce del perdono

Torna il nostro feuilleton Pane e noci in Christmas edition. L’autore è lo scrittore Alessio Mussinelli, l’illustratore Matteo Gubellini. Protagonisti don Biagio, il sindaco Foresti, Anselmo, le luminarie, l’elettricista. E il sapore dolce del perdono.

Per la prima volta da quando il sindaco Foresti e don Biagio si erano conosciuti, gli addobbi natalizi lungo le vie del paese procedevano senza intoppi.
Si era deciso, di comune accordo, di appendere lunghe file di luci da un lato all’altro degli edifici, lungo i cornicioni e i balconcini spogli, come un filo conduttore che partendo dalla piazza unisse tutte le case e, idealmente, gli animi di chi le abitava.
– Uno spettacolo – s’era emozionato don Biagio quando l’elettricista gli aveva presentato il progetto.
– Uno spettacolo – aveva fatto eco il sindaco Foresti alla prima assemblea comunale.
Nessun colore politico, nessuna discriminazione, nessuna contrapposizione religiosa: ognuno avrebbe collegato le proprie decorazioni a quelle dei propri vicini. Un unico cavo per l’intero paese. Anselmo escluso.
Anselmo viveva in un piccolo cascinale al termine di uno sterrato che attraversava un campo di granturco. Impossibile che lampadine colorate lo raggiungessero.
– Ne servirebbero a chilometri – fece l’elettricista.
– O tutti o nessuno – protestò il sindaco Foresti, fedele ai principi più che al dio soldo. -S’è detto che tutte le abitazioni saranno collegate, e così dev’essere -.
L’elettricista mugugnò, i suoi installatori pure, il segretario comunale -che annusava il rischio di dover metter mano alle casse -, idem.
Don Biagio, invece, mise una mano sulla spalla del sindaco, come non aveva mai fatto, e lo affiancò. – Avete ragione – disse suscitando lo stupore generale. – O tutti o nessuno -.
Passato l’imbarazzo d’aver ricevuto l’appoggio d’un nemico storico, il sindaco prese a far di conto, ma accorgendosi di non essere tagliato per tali questioni, chiese al segretario comunale d’occuparsene al posto suo: che le spese per allacciare il cascinale di Anselmo alla ragnatela di tutte le altre case fossero ripartite equamente. -Metà al prete, metà all’elettricista, metà al comune- riassunse in preda al delirio matematico.
Anselmo, tuttavia, avendo fatto della solitudine il suo abito, quando il sindaco gli presentò il progetto con il fare tronfio d’un cavaliere che da solo aveva vinto la guerra, non fu capace di dimostrare il proprio entusiasmo.
-Il progetto è carino, ma mi rincresce che dobbiate portare le lampadine fino a qui- troncò in un amen.
-Nessuno sforzo, è stato un piacere-.
-Vi sono grato, ma non avreste dovuto-.
Il Foresti emise un grugnito. -Il minimo che possiate fare è dimostrare un po’ di felicità. Il paese è già tutto illuminato, mancate solo voi- disse mostrandogli i rimasugli della chilometrica prolunga che aveva svolto dalla piazza.
Anselmo rispose ossequioso ma non altrettanto convincente. -Sono felice, sì, mi rincresce solo che abbiate fatto tanta fatica inutilmente.
Il Foresti s’innervosì: l’ingratitudine lo irritava più dell’eritema solare. Abbandonò la prolunga sul retro del trattore di Anselmo e se ne andò bofonchiando. Beato chi lo capiva, l’Anselmo. Pareva ch’avesse un eremo al posto del cervello.
Anselmo non seppe che dire. Chiuse la porta e tornò al piatto di minestra che si raffreddava sul tavolo, davanti alla quattordicesima replica quotidiana della decima stagione di Tempesta d’Amore.
Il mattino seguente, tutte le luci che erano state attaccate tra i balconi giacevano a terra a brandelli.
-Un disastro- si mise le mani nei capelli l’elettricista.
-Un disastro- gli fece eco il sindaco Foresti mancando per l’ennesima volta di parole sue.
Pezzi di filo erano sparsi qua e là su ringhiere e cornicioni, dagli alberi del viale pendevano come macabri lacci d’impiccato, e le lampade colorate, finite a terra nella loro moltitudine di colori, avevano spruzzato il nero dell’asfalto con le loro tonalità brillanti.
-Che è successo?- chiese don Biagio, non appena uscito dalla canonica.
Dal fondo della strada, a un’andatura lenta e inesorabile, Anselmo guidava il suo vecchio trattore rosso, e più il mezzo s’avvicinava tossendo fumo, più il volto di Anselmo si tingeva di colpevolezza. Senza accorgersene era partito con il trattore verso i campi, trascinando con sé il cavo della prolunga che il sindaco gli aveva lasciato, e le file di luci che a esso erano state attaccate. Quando se n’era accorto era già troppo tardi.
-Mi dispiace- si mise la mano al cuore con aria mortificata. -Non ho fatto apposta-.
Le sue scuse, così come i ringraziamenti, le felicitazioni, gli auguri, e tutte le altre emozioni avesse cercato di esprimere a parole nei suoi cinquant’anni di esistenza, non convinsero nessuno. Anzi. Tutti acclamarono un suo immediato esilio fisico e morale: la sua inadeguatezza a vivere con altre persone non aveva bisogno di ulteriori dimostrazioni. Non per niente era scapolo, viveva a tre chilometri dal suo primo vicino e entrava al supermercato solo quand’era sicuro che fosse deserto.
Anselmo cercò di spiegare, di far capire, di porre rimedio, ma le parole giuste non gli uscivano dalla bocca. I suoi pensieri non trovarono sfogo, se non un amaro silenzio. Tornò al suo cascinale, solo come era sempre stato, e assorbì gl’insulti che gli piovevano addosso a voce, via telefono, per messaggio, sul giornale dei giorni seguenti, su Facebook e su tutti gli altri social network di cui, fortunatamente, ignorava l’esistenza. Tutto il mondo, che fino a quel giorno aveva ignorato la sua esistenza senza alcun riguardo, si era deciso a puntargli addosso un riflettore. Un mirino di precisione, a voler esser puntuali.
Unica eccezione nel compatto coro d’improperi fu un ragazzino delle scuole medie con l’r moscia e una pettinatura sbarazzina, che aveva sempre provato simpatia per Anselmo poiché il suo gatto aveva lo stesso nome.
-A me non sembra una cosa tanto grave- confidò a don Biagio durante il catechismo. -Si sono rotte delle lampadine che, a dirla tutta, non erano poi tanto belle-.
Don Biagio gli spiegò con pazienza che la situazione era più complessa di quel che gli potesse sembrare, e che qualcuno, in quelle lampadine, aveva investito e perso molto denaro.
-Perché voi adulti impiegate i soldi in modo illogico- protestò il ragazzo. -Dovreste usare il cervello più spesso. Trovereste soluzioni migliori d’abbellire il paese-.
-Cioè?-
Il ragazzino gli si avvicinò all’orecchio, e lo sguardo di don Biagio passò dal perplesso al sorpreso, dal soddisfatto all’illuminato. -Hai avuto una magnifica idea- gli disse dandogli una benedizione al volo.
-Sul serio?-.
-Sarà magnifico-.
Al termine della messa di mezzanotte, mentre i fedeli uscivano dalla chiesa rivolgendosi reciprocamente gli auguri, sulla via principale risplendevano una miriade di lumini bianchi, di cui non si vedeva la fine.
Costeggiavano il viale, affacciandosi in tutte le viuzze buie, contornavano la piazza, giravano attorno alla nuova rotonda, attraversavano il provinciale e poi il parco giochi, il giardino della casa di riposo, l’oratorio, il campo sportivo, fino a perdersi oltre la collina.
-Seguite le luci- disse don Biagio ai fedeli finché giunsero all’isolato cascinale di campagna.
-Anselmo- gridò don Biagio.
Il contadino spense la televisione e si sporse dalla finestra, arreso a subire l’ennesima umiliazione.
-Sei stato un incredibile disastro, ma ti vogliamo bene e ti auguriamo un buon Natale. E ti chiediamo scusa per tutte le offese che ti sono stati rivolte. Ci potrai mai perdonare?-.
La luce soffusa dei lumini, l’atmosfera magica della notte di Natale, il cielo stellato che faceva capolino tra la foschia, valsero più di mille parole e ragionamenti, più dell’inespressività di Anselmo che anche in quella circostanza non riuscì a aprir bocca. Scese in strada, ringraziò con un cenno don Biagio e si abbandonò alle lacrime, fino a quando gli abbracci dei compaesani dall’intenso sapore di perdono cancellarono i torti, e il risentimento causato dal suo errore svanì come una coltre di nebbia dinanzi alla forza del sole.

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