“Il nostro è un patto di vecchia data. Lo abbiamo fatto quand’eravamo poveri tutti e due e contenti di esserlo”.
Una ragazza ricorda i tempi dell’inizio a colui che era il suo amore. Come può essere la povertà – e questo è un termine su cui torneremo – fonte di felicità? Come si può rimproverare l’altro di essere diventato ricco, andando contro le convinzioni comuni? Eppure la fiera fanciulla restituisce all’uomo che amava la sua libertà: “I release you. With a full heart” gli dice, con un filo di voce, “ti lascio libero. Con il cuore pesante”, dopo avergli ricordato con amarezza: “tu pesi ogni cosa in base al guadagno”.
Molti avranno capito che stiamo parlando di uno dei capolavori di Dickens, “A Christmas carol”, tradotto di volta in volta con “Un canto di Natale”, “Racconto di Natale”, “Leggenda di Natale”, uscito nel 1843 (Nella foto una scena del film “A Christmas Carol” della Disney). La storia è ben conosciuta, ma noi non vogliamo ricordare la natività di Cristo con l’ennesima riproposizione del libro dickensiano, bensì partire proprio da quella fanciulla che lascia Scrooge quando egli diventa ricco per parlare dei giorni nostri. Un capolavoro, lo si sa, ha ragioni da vendere in ogni epoca.
Sì, è vero, erano poveri. Poveri vuol dire avere il necessario per vivere, per poter guardare al futuro con una speranza nel cuore. La speranza di tutti noi. Che non è di arrivare a quattro lussuose ville, ai miliardi in banca, al successo insonne e per tutta la vita. Lo so, lo so, la tv, che ci dovrebbe dire altro, ci bombarda di “famosi”, di ricchi, di bellissimi, di rifatti/e e soprattutto di non felicissimi. Ma se ci pensiamo bene, il messaggio che ci viene dall’Ottocento, anche da molto prima, è invece un altro: costruisci per essere felice davvero, per onorare la vita tua e degli altri con qualcosa che non sia merce. Per sorridere e far sorridere con poco. E non aver paura di quello che Scrooge aborrisce come povertà. Se essa è non passare sulla testa degli altri per avere un posto migliore, non è vendere l’anima, e perfino gli affetti veri, al diavolo, se non è guastarsi la vita per non aver potuto avere un posto migliore nella piramide dei potenti & ricchi, allora forse dobbiamo cambiargli nome. E guardare con più discernimento a quella vera, a quella della gente sbattuta sul lastrico dalla crisi, dal posto di lavoro che non c’è più, dalla malattia e dalle false promesse di facili interessi, come è accaduto in questi giorni.
“Un canto di Natale” ci narra una storia a rovescia, e che ci dovrebbe dire ancora oggi tante cose: una fanciulla, offesa dall’ingordigia del proprio uomo, lo lascia. Lo lascia proprio quando egli ha raggiunto la ricchezza. Perché ha perso il buonumore, la delicatezza, la salute dell’anima. La fanciulla fa esattamente il contrario di quello che i mass media di oggi, se non tutti una buona parte, ci suggeriscono – senza dirlo apertamente -, di fare.
Sì, certo, la carità, va bene, la comprensione per chi non ce l’ha fatta, però non scherziamo, questo è il messaggio: o famosi e ricchi o niente. Se non sei famoso e ricco sei un fallito.
Ma il messaggio di Dickens va ancora più in profondità, e ci dice che è Natale quando il solitario trova la forza per rinunciare alle sue fobie e ai sensi di colpa e riesce a suonare un campanello, a tendere la mano per primo, a rischiare una porta sbattuta in faccia, un “vattene”.
Scrooge l’avaro, il solitario, si ferma di fronte a una casa di antichi amici e passa “davanti alla porta una dozzina di volte, prima di trovare il coraggio di accostarvisi e bussare”.
Eccola la rinascita, lo svelamento, il nuovo che si fa largo tra lo sfacelo del vecchio: il passaggio negli inferi degli spettri (ce lo insegna Dante) può preludere al ritorno alla luce.
Il viandante solitario accompagnato dai suoi fantasmi, unici amici fedeli del suo viaggio, ha trovato una porta alla quale bussare, come se lui fosse il povero, e l’uomo “comune”, direbbe Chesterton, l’eroe che lo soccorre.