Unità dei cristiani. Padre Vladimir Zelinskij: “Un impegno forte, un cammino ancora lungo”

Spesso negli articoli di giornale o negli interventi pubblici che cadono durante la «settimana di preghiera per l’unità dei cristiani» ricorrono toni ottimistici, come se gli equivoci e i contrasti tra le Chiese riguardassero solo un lontano passato. Non si preoccupa invece di passare sotto silenzio le difficoltà del presente padre Vladimir Zelinskij, rettore – a Brescia – della parrocchia ortodossa di Maria Santissima Gioia degli Afflitti, e autore di diversi volumi di spiritualità in lingua italiana (ricordiamo tra gli altri Rivelami il tuo Volto e Il bambino alle soglie del Regno. Teofania dell’infanzia, pubblicati da Effatà, nonché Mistero cuore speranza. Invito alla spiritualità russa, edito da Àncora).

«Mi capita spesso di parlare in pubblico sulla situazione attuale del dialogo ecumenico – egli spiega – e ogni volta mi sento in dovere di fare una premessa, pur sapendo che potrebbe deludere l’uditorio. Chi è di fronte a me, solitamente, si aspetta di ascoltare delle novità positive, mentre la mia opinione, come sacerdote ortodosso, è che il dialogo ecumenico conosca oggi maggiori difficoltà che in passato. Ne è una testimonianza il fatto che alcune Chiese ortodosse abbiano abbandonato nel recente passato o minaccino attualmente di uscire dal WCC, il Consiglio Ecumenico delle Chiese».

Come si è giunti a questa situazione? Negli anni del Concilio Vaticano II e subito dopo vi era stata una fase di grande vivacità del dialogo ecumenico: ricordiamo anche solo, nel 1965, per opera di Paolo VI e del Patriarca Atenagora, l’annullamento delle scomuniche reciproche tra cattolici e ortodossi.

«Ma appunto, rispetto agli anni Sessanta del secolo scorso la situazione è molto cambiata, anche da un punto di vista e politico e sociale; all’epoca, la maggior parte delle Chiese nazionali ortodosse, nell’Europa dell’Est, si trovava a convivere con i regimi comunisti dei rispettivi Paesi. Poter viaggiare all’estero, per prendere parte a incontri con i rappresentanti di altre confessioni cristiane, era un privilegio che ci si sentiva di dover “meritare”, e queste occasioni di confronto erano viste con un certo entusiasmo. La caduta del comunismo, in seguito, ha portato a una brusca “occidentalizzazione” dell’Europa orientale, un processo che è stato spesso percepito come minaccioso, a livello culturale e spirituale».

Si è portati a chiudersi su se stessi, per paura di perdere la propria identità culturale e nazionale?

«In un certo senso, sì. Oggi, nel mondo ortodosso, potremmo grossomodo distinguere tre atteggiamenti nei riguardi delle altre Chiese: il primo, che definirei “integrista”, non caratterizza forse in assoluto la maggioranza dei credenti, ma è in ogni caso diffuso; un secondo atteggiamento, che chiamerei “tradizionalista”, è accompagnato dal timore di dissipare i tesori della nostra tradizione spirituale. Poi, vi sono coloro che hanno ancora a cuore il dialogo interconfessionale; io mi riconosco in questa posizione, che però, oggigiorno, non è quella prevalente. Probabilmente, proprio con la componente “tradizionalista” – nel senso che ho appena indicato – è necessario cercare occasioni di dialogo».

Mettiamo che le cose cambino in meglio, e che il percorso ecumenico riprenda slancio. Tra Chiese che nel corso dei secoli sono andate definendo diverse formule di fede, come potrebbe avvenire una riconciliazione piena? Ragionando in termini politici, si sarebbe tentati di praticare un compromesso, rinunciando gli uni a qualcosa e gli altri a qualcos’altro… Ma un discorso del genere regge, a livello teologico?

«Almeno da un punto di vista ortodosso, la parola “compromesso”, applicata alle relazioni tra le Chiese, è inascoltabile. Non si tratta di rinunciare a una parte delle rispettive tradizioni pur di conseguire una sorta di “accordo al ribasso”. Forse, l’intera questione dei rapporti tra le diverse confessioni cristiane andrebbe ripensata entro un’altra prospettiva: personalmente, sono convinto che la via dell’unità non passi solo né principalmente per i confronti teologici ad alto livello. Dovremmo invece domandarci come possiamo noi tutti – ortodossi, cattolici, protestanti – rendere con le nostre vite testimonianza a Cristo, offrire al mondo dei segni credibili della sua presenza e del suo amore».

Il fenomeno della globalizzazione non ha però anche degli effetti positivi, per quanto concerne la conoscenza reciproca dei cristiani di diverse confessioni? Per dirla un po’ brutalmente: ancora pochi decenni fa, in Italia, nemmeno sapevamo chi fossero gli «ortodossi»; ora incontriamo spesso immigrati ucraini, russi, di altri Paesi dell’Europa dell’Est che aderiscono appunto all’ortodossia. Capita anche, qua e là, che chiedano e ottengano di poter celebrare la divina liturgia in edifici di culto cattolici…

«Questo non succede solo sporadicamente: io credo che siano decine e decine, in Italia, i luoghi di culto cattolici aperti con grande generosità al culto ortodosso. È un peccato che di questa realtà quasi nessuno sappia e parli nei Paesi dell’Europa orientale, dove un’analoga disponibilità all’accoglienza non ha mai preso piede. Sempre facendo riferimento alla situazione italiana, vi è un’altra forma di “ecumenismo della vita” che mi pare meritevole di attenzione. Si sa che molte donne ortodosse di origine ucraina, romena o moldava lavorano in famiglie cattoliche, come collaboratrici domestiche o badanti. Capita abbastanza frequentemente che alcune di loro mi chiedano di recitare delle preghiere in favore dei datori di lavoro, per esempio di una persona anziana malata, o da poco defunta. Da un punto di vista canonico, tali preghiere sarebbero riservate ai membri della Chiesa ortodossa; rimangono comunque importanti queste attestazioni di un affetto che nasce dalla frequentazione reciproca, quotidiana, tra credenti in Cristo di diverse confessioni. Apparentemente, questa conoscenza vicendevole si traduce oggi in piccoli gesti, affidati all’iniziativa dei singoli; io, però, sono persuaso che ne verranno dei frutti importanti in futuro».

A proposito della necessità di approfondire la conoscenza reciproca: nel prossimo mese di giugno, a Istanbul, è in programma un Sinodo pan-ortodosso. Esattamente, perché si è pensato di indire questa assemblea? Quali argomenti verranno discussi?

«L’espressione “Sinodo”, in questo caso, non è corretta, perché si dovrebbe trattare non di un normale incontro tra vescovi, ma di un vero Concilio, di una riunione di livello ben superiore a cui parteciperebbero tutte le Chiese ortodosse. Ho usato i verbi al condizionale, perché il percorso preparatorio di questa assise – indetta dal Patriarca ecumenico Bartolomeo I – è stato molto travagliato, e vi è ancora il rischio che vi siano delle defezioni in dirittura d’arrivo. In realtà, il progetto di un Concilio pan-ortodosso era già nato negli anni Sessanta, proprio mentre si svolgeva il Vaticano II, ma non si era finora tradotto in pratica. In questa intervista, io e lei abbiamo parlato della necessità di una riconciliazione tra le confessioni cristiane, ma occorre riconoscere che lo stesso mondo ortodosso è assai diviso al suo interno. Lo scopo del Concilio convocato da Bartolomeo I non è certamente quello di definire nuove verità di fede, ma di tentare di risolvere una serie di questioni pratiche, relative, per esempio, ai criteri per definire la “canonicità” di una Chiesa nazionale, o alla disciplina dei matrimoni tra ortodossi e cristiani di diversa appartenenza».

Sperando che il Concilio davvero si svolga: lei che cosa si aspetta, o che cosa desidererebbe, da questa assemblea?

«Il mio desiderio sarebbe che gli ortodossi riuscissero finalmente a parlare “con una voce sola”, superando i motivi di contrasto del passato e del presente. Sarebbe anche importante rivalutare il significato dell’evento stesso di un Concilio per la vita della Chiesa. Noi ortodossi riconosciamo ufficialmente l’autorità di sette Concili ecumenici, l’ultimo dei quali, il secondo di Nicea, risale all’anno 787. Nel corso del tempo, si è prodotta una situazione paradossale: da un alto, le nostre Chiese nazionali fanno tutte riferimento alla medesima tradizione di fede; dall’altro, hanno finito concretamente per condurre una vita autonoma, le une rispetto alle altre. Per il futuro, invece, si potrebbe pensare a una convocazione periodica dei Concili, come occasioni di effettiva condivisione e comunione tra i membri di Chiese sorelle».