Caro parroco, continua a “portare in grembo” la tua gente. Nonostante tutto

Mi hanno raccontato di una parrocchia. Non è di Bergamo, ma potrebbe esserlo. Il parroco propone di accogliere degli immigrati. I suoi collaboratori, in maggioranza, gli dicono di no. Il parroco, tra l’incavolato e il depresso, vuole andarsene. È vicino alla pensione e vorrebbe anticipare. “Se questo è il risultato di secoli di cristianesimo, non vale la pena perdere altro tempo”, dice. Tu al suo posto cosa avesti fatto? Non è roba di tua diretta competenza. Ma uno sguardo “diverso” su queste faccende ci serve. Monica

ACCOGLIAMO GLI EXTRACOMUNITARI. I COLLABORATORI DICONO NO

La problematica evidenziata non è semplice, cara Monica, l’abbiamo espresso più volte! L’argomento è una questione “scottante”: comprendo il parroco che, tra l’incavolato e il depresso, constata come, dopo duemila anni di cristianesimo il Vangelo sembra ancora poco assorbito dal cuore e dalla mente dei cristiani; d’altra parte capisco anche i suoi collaboratori che, alle prese con una emergenza che supera la loro “testa”, dicono: “No”. Che fare allora? È meglio “gettare la spugna” oppure intestardirsi nelle proprie posizioni? A mio parere è positivo impegnarsi a trovare un punto in comune che aiuti a dialogare e a negoziare: tra la posizione del parroco, pronto a compiere scelte generose, e quella dei suoi collaboratori che si rifiutano di accogliere la proposta è possibile giungere a un compromesso che tenga conto sia dell’una che dell’altra, così da non dividere la comunità e abbandonarla al suo destino, con il rischio di dare una testimonianza ancor meno credibile?

I TEMPI LUNGHI DELLA PAZIENZA

Scelte come quella in questione, infatti, non si improvvisano. I parrocchiani vanno preparati e formati molto lentamente, come faceva Gesù con i suoi discepoli e come continua a fare con ciascuno di noi.

La delusione del pastore nel constatare che, dopo tanta cura, il gregge non è ancora in grado di compiere scelte significative è comprensibile; tuttavia, non trovo strade alternative a quella sopra citata: anche il popolo d’Israele, infatti, come ci racconta la Bibbia, in numerose occasioni si dimostra un popolo di dura cervice, incapace ed ostinato nel procedere secondo le proprie strade, ma nonostante questo, Dio non lo abbandona a se stesso, al contrario, non cessa di portarselo in grembo ed educarlo pazientemente.

Per le guide delle nostre comunità la pazienza è una preziosa virtù che può aiutare a stare al passo dei più deboli senza scandalizzarsi delle loro contraddizioni, proprio come fa una mamma nell’accompagnare i figli nel cammino della crescita; integrata con la lungimiranza è un ottimo farmaco che aiuta a non venire meno nell’educare e nell’orientare a grandi ideali, accompagnando e sostenendo i piccoli passi possibili, necessari affinché si giunga a compiere, pur rispettando i tempi di crescita e di cammino di ciascuno, anche scelte radicali concrete.

Non si tratta di “abbassare il tiro”, annacquando il Vangelo, ma di fare in modo che, attraverso il nostro aiuto, i fratelli affidatici dalla provvidenza divina giungano gradualmente a compiere opzioni coraggiose e mature. Tale itinerario, tuttavia, chiede al pastore una buona capacità di discernimento per leggere i segni dei tempi e intuire se, ahimè… sebbene a malincuore, sia il caso di soprassedere. Ritengo non corretta, né rispettosa la posizione di coloro che procedono senza tenere conto il grado di maturità delle persone loro affidate.

“L’HO FORSE CONCEPITO IO TUTTO QUESTO POPOLO?”

E nel frattempo? Nel frattempo mi pare importante non cessare di “portare in grembo” la propria gente, custodendola nel cuore come la propria sposa o il proprio figlio, per generala alla vita con passione, cura, creatività e impegnarsi ad accompagnare il suo cammino, facendo tesoro di tutte le occasioni offerte dalla vita e dalle situazioni per educare a dare concretezza alla propria fede. “Guardate l’agricoltore: – scrive san Giacomo nella sua lettera- egli aspetta con costanza il prezioso frutto della terra finché abbia ricevuto le prime e le ultime piogge” (Gc 5,7). E se ci prende la tentazione di andarsene, pensiamo che anche Mosè ha attraversato momenti simili, ma non ha avuto paura, né vergogna di manifestarli al Signore; perciò, quando la delusione tenta di prendere il sopravvento, innalziamo a voce alta la stessa preghiera che Mosè, scoraggiato e amareggiato, innalzò al cielo: “Perché hai trattato così male il tuo servo? Perché non ho trovato grazia ai tuoi occhi, tanto che tu mi hai messo addosso il carico di tutto questo popolo? L’ho forse concepito io tutto questo popolo? O l’ho forse messo al mondo io perché tu mi dica: Pòrtatelo in grembo, come la balia porta il bambino lattante, fino al paese che tu hai promesso con giuramento ai suoi padri? (…) Io non posso da solo portare il peso di tutto questo popolo; è un peso troppo grave per me. Se mi devi trattare così, fammi morire piuttosto, fammi morire, se ho trovato grazia ai tuoi occhi; io non veda più la mia sventura!”. (Nm 11,11-15).