Tra la “democrazia del nostro scontento” e la democrazia. In margine alle primarie PD di Milano

Si sono appena concluse le primarie del PD per il candidato sindaco del capoluogo lombardo. Ha vinto Giuseppe Sala, come tutti sanno. Ma, a proposito di primarie, dobbiamo notare che continua a mancare una regolamentazione legislativa e nazionale. Così ciascun partito se le fa in casa propria. A volte funzionano, a volte sono manipolate, a volte sono pleonastiche, quando il candidato è uno solo.

ANCHE I CINESI

Tuttavia, l’immagine delle file di votanti, italiani e stranieri (a questo proposito, da una parte, la sinistra radicale, dall’altra, Grillo hanno lamentato la presenza di cinesi nelle file: non parlano italiano, vogliono votare in gruppo, hanno i “santini” in mano”, si fanno i selfie: della serie: “li vogliamo integrare, forse, ma che stiano al loro posto”!) che hanno occupato i marciapiedi di Milano nello week-end scorso, con il ciel sereno o sotto la pioggia, dà l’idea semplice, ma efficace di persone che vogliono contare nelle scelte, in questo caso in quella del sindaco di Milano. La politica compare sulla scena come un’attività civile volontaria, alla quale un partito – in questo caso, il PD – fornisce i canali e la logistica per manifestarsi. È il partito, in effetti, che le ha indette e organizzate.

LA CRISI DELLA POLITICA LE SUE CAUSE

Sono un tentativo provvisorio di uscire dalla crisi della democrazia fondata sui partiti e, pertanto, della democrazia come tale. Gli scienziati della politica hanno coniato in questi anni molte brillanti definizioni di questa crisi: “democrazia del pubblico”, “post-democrazia”, “populismo”, “cyber-democrazia”, “web-democrazia”, “social-democrazia” (dove “social” è il nome collettivo di Facebook, Twitter, Instagram…). Si potrebbe sintetizzare, rubando le parole a Shakespeare e a Steinbeck, “democrazia del nostro scontento”. Le analisi fenomenologiche della sociologia politica descrivono con grande precisione i sintomi della lunga malattia della democrazia, ma ci chiedono di andare oltre nella ricerca delle cause. Per limitarci al nostro Paese, la crisi della democrazia è la crisi del sistema dei partiti. La data fatale è quella del 1989, poiché si considera dirimente la dimensione culturale. Caduta l’ideologia comunista, cade la DC come diga e come architrave del sistema.

CRISI ISTITUZIONALE E COSTITUZIONALE

In realtà, la crisi dei partiti è istituzionale e costituzionale. Ed è incominciata assai prima e continua ancora oggi. Lo schema istituzionale, confermato in Costituzione nel 1948, è quello del 9 settembre 1943, giorno di fondazione del Comitato di Liberazione Nazionale (CLN). Da una parte, una società nazionale, lacerata dalla guerra civile, economicamente distrutta, culturalmente povera, in un Paese occupato e conteso tra potenze straniere; dall’altra, uno Stato amministrativo distrutto. Nel mezzo il nascente sistema dei partiti, che tiene insieme la società e il Paese e che si insedia poco a poco nello Stato amministrativo. Sono le trasformazioni economico-sociali e culturali della società civile a mettere in crisi la funzione di mediazione tra società civile e stato esercitata dai partiti. Una funzione spessa. L’erosione si è resa visibile già nel ’68. La crescita del benessere, l’aumento dei livelli di istruzione e di cultura, l’idea di autodeterminazione e di libertà hanno costruito “la pretesa” di partecipare, di decidere in prima persona. Solo Aldo Moro, già nel ’68, percepì la forza di quella pretesa e intuì che qualcosa di nuovo stava nascendo.

LA SOLITA SCENA IN UN TEATRO DIVENTATO VUOTO

Il sistema dei partiti si chiuse a riccio, continuò a recitare la propria parte sulla scena, in un teatro sempre più vuoto. Gli spettatori volevano partecipare come attori. Detto in altri termini: i cittadini si sono stufati, non della democrazia in generale, ma di quella specifica dei partiti. Che hanno reagito per decenni con le accuse di qualunquismo, di populismo, di ingovernabilismo. Avendo la trave nell’occhio, accusavano la pagliuzza altrui. Ora, alla fine, i termini dell’alternativa sono chiari: i partiti vogliono scegliere loro il governo, i cittadini avanzano la pretesa simmetrica: lo voglio scegliere loro. Perciò la collocazione istituzionale dei partiti – che resta ancora quella definita nel 1948 – non funziona più. Le primarie sono i primi incerti passi della transizione verso un sistema istituzionale e costituzionale, nel quale i cittadini dicano l’ultima parola nella scelta del governo – ad ogni livello – e i partiti siano la fucina culturale delle classi dirigenti. Il loro ruolo di mediazione tra Stato e società civile resta, ma diminuisce lo spessore e cambiano i contenuti della mediazione. Detto in altro modo: i partiti come forme di auto-organizzazione della società civile, non più come longa manus delle istituzioni. Resta l’architettura essenziale dello spazio pubblico europeo: cittadini, partiti, istituzioni. Solo che lo spazio intermedio dei partiti è più ridotto, i cittadini influiscono più direttamente sulle istituzioni, by-passando i partiti. Che, a loro volta, si rilegittimano, stringendosi più da vicino ai cittadini.