“Fuocoammare” di Gianfranco Rosi, che racconta il flusso inarrestabile dei migranti, «fantasmi di passaggio» verso il nostro Paese, unico film italiano in gara alla 66esima edizione del Festival di Berlino si è aggiudicato il massimo premio.
«Il mio pensiero più profondo va a tutti coloro che non sono mai arrivati a Lampedusa, a coloro che sono morti. Dedico questo lavoro ai lampedusani che mi hanno accolto e hanno accolto le persone che arrivavano. È un popolo di pescatori e i pescatori accolgono tutto ciò che arriva dal mare. Questa è una lezione che dobbiamo imparare».
Il regista, che ha curato anche la sceneggiatura e la fotografia del docufilm, commosso e orgoglioso, ha commentato a caldo sul palco, a fianco di Meryl Streep, Presidente della giuria, la sua vittoria, frutto di più di un anno di lavoro e di riprese nell’isola di Lampedusa, piccolo lembo di coraggiosa terra di quel confine invisibile che separa da noi chi da noi cerca l’America.
«Per la prima volta l’Europa sta discutendo seriamente alcune regole da fissare, io non sono contento di ciò che stanno decidendo. Le barriere non hanno mai funzionato, specialmente quelle mentali. Spero che questo film aiuti ad abbattere queste barriere», ha proseguito Rosi, il quale nel 2013 con “Sacro GRA” (film che documenta, senza commento esterno o interviste di sorta, scene di vita reale che si svolgono tutte in prossimità del Grande Raccordo Anulare, l’anello autostradale che circonda Roma) aveva vinto il Leone d’oro come miglior film.
Nella Germania della cancelliera Angela Merkel, ora più compassionevole nei confronti dei migranti, in questa Unione Europea a due velocità dove si fa più netto il distacco tra Regno Unito e i partner aderenti all’euro in attesa del temuto voto del referendum del 23 giugno in Gran Bretagna, il docufilm è stato molto apprezzato, entusiasmando pubblico e critica. Meryl Streep al fianco del direttore della Berlinale Dieter Kosslick, leggendo il verdetto della giuria ha definito “Fuocoammare” «Film eccitante e originale, la giuria è stata travolta dalla compassione. Un film che mette insieme arte e politica e tante sfumature. È esattamente quel che significa arte nel modo in cui lo intende la Berlinale. Un libero racconto e immagini di verità che ci racconta quello che succede oggi». Il docufilm «urgente, visionario, necessario» racconta ciò che da vent’anni avviene a Lampedusa, quella “periferia dell’esistenza”, isola a metà tra Africa ed Europa, scelta da Papa Francesco nel luglio del 2013 come meta del suo primo viaggio apostolico.
Le cifre parlano chiaro: nel piccolo territorio di Lampedusa, una superficie di 20,2 kmq nella quale vivono 6.304 abitanti complessivi, nel corso di vent’anni sono sbarcati 400mila migranti e morte 15 mila persone. Con il “fuoco sacro del cronista”, Rosi si è immerso nella realtà lampedusana incrociando le storie e i diversi destini di quel popolo di mare e di quei migranti che sbarcano (spesso annegando in prossimità delle coste dell’isola) in quella terra di passaggio. Da un lato lo sguardo da adulto di Samuele Pucillo, un ragazzino di 12 anni al quale piace tirare con la fionda, fatta da sé, andare a caccia e sparare con un finto mitra contro il cielo quasi sempre plumbeo. Il lavoro quotidiano del dottor Pietro Bartolo che da anni soccorre e cura tutti con commovente uguaglianza, e spesso constata il decesso dei migranti «è dovere di ogni uomo che sia uomo aiutare queste persone», (il regista giramondo Rosi l’ha chiamato sul palco della Berlinale al momento della vittoria). Maria Costa, la nonna di Samuele che racconta al nipote di quando durante la II Guerra Mondiale, le navi militari lanciavano razzi nel mare simili a fuochi, ora invece il mare se ha il colore del fuoco è perché si tinge del sangue dei migranti annegati. “Il mare non è un luogo da oltrepassare, non è una strada…”, è il rap/preghiera del giovane nigeriano che racconta l’orrore che i suoi occhi hanno visto e che ha sperimentato sulla propria pelle. Dall’altro lato gli sbarchi diurni e notturni nella scura notte lampedusana, i pericolosi trasbordi dai barconi, i naufragi, le salme dei migranti, le loro speranze e la loro disperazione.
«Ci sentite? Stiamo affondando!».
Agghiacciante la testimonianza di Bartolo: «Ricordo ancora il primo sbarco a Lampedusa: mi chiamarono “c’è qualcosa che non va nella stiva”. Scesi sotto, nella stiva dei pesci. Era buio e con la luce del telefonino mi accorsi che camminavo sui cadaveri. Li avevano imbarcati per primi, sarebbero dovuti uscire all’aperto ma in mare si erano accorti che non c’era più posto. Per non farli uscire li avevano picchiati con bastoni, poi avevano divelto una porta e ci si erano seduti sopra. Erano morti soffocati. Tra le unghie insanguinate c’erano frammenti di legno: avevano cercato di staccare le paratie».
Una tragedia della quale Rosi ci dimostra che non solo sono testimoni i lampedusani, ma l’intera umanità. «Filmare la morte è stata la cosa più dura» ha confessato il regista che con “Fuocoammare” ha obbligato l’Europa a puntare il suo sguardo distratto verso Sud, a Lampedusa. «Un dovere morale raccontare il dramma dei migranti» e andare a vedere il docufilm al cinema, aggiungiamo noi, perché come scriveva John Donne: «nessun uomo è un’isola, completo in se stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto».