Come cambia la vita delle donne: più cultura, più tecnologia, meno figli. Ancora troppe lasciano il lavoro dopo una gravidanza

«Le donne in questi anni hanno modificato le loro vite contribuendo a cambiare il nostro Paese. Sono un soggetto che ha determinato forte innovazione sociale», dichiara Linda Laura Sabbadini, Direttore del Dipartimento delle Statistiche Sociali e Ambientali dell’Istat (Istituto Nazionale di Statistica) unica carica riconosciuta a una donna all’interno dell’Istituto Nazionale di Statistica. Il testo “Come cambia la vita delle donne 2004 – 2014” curato da Sabbadini con Sara Domofonti e Romina Fraboni, è «una radiografia dinamica dell’universo femminile», dal quale risulta che le donne non solo sono più istruite ma le giovani sorpassano i loro coetanei sia per il livello d’istruzione, sia per la regolarità dei processi formativi, sia per la scelta di quelle facoltà (Ingegneria, Medicina, Chimica) un tempo quasi solo appannaggio maschile. «A tutto questo aggiungiamo che si è ridotto il divario tecnologico» puntualizza Sabbadini. Infatti, «Il cambiamento su questo fronte è molto accentuato, perché l’aumento della partecipazione femminile nei percorsi secondari superiori fin dagli inizi degli anni ’80 ha fatto sì che il tasso di femminilizzazione, cioè la percentuale di donne tra gli iscritti, sia molto aumentato nel corso del tempo. Nella scuola secondaria superiore, questo passa, infatti, dal 37,2 per cento del 1950/51 al 48,8 per cento del 2012/13. Come conseguenza delle nuove scelte delle giovani donne, la composizione percentuale del numero di allieve delle secondarie per tipo di scuola si modifica considerevolmente. Nel 1950/51 le alunne delle scuole superiori s’iscrivevano soprattutto negli istituti magistrali e nei licei classici (che raccoglievano in totale il 71 per cento delle ragazze); oggi, invece, le donne sono maggiormente ripartite nei diversi percorsi, e scelgono gli istituti tecnici nel 23,7 per cento dei casi, i licei scientifici nel 23,4 per cento, gli istituti professionali nel 18 per cento e i licei classici nel 15,1 per cento. L’incremento del tasso di femminilizzazione è stato ancora più evidente se si guarda agli studi universitari. Questo passa, infatti, dal 25,5 per cento del 1950/51 al 49,5 per cento del 1990/91 (quando si raggiunge quindi la parità), per continuare a crescere e raggiungere il 56 per cento nel 2001/2002 e il 56,9 per cento nell’anno accademico 2012/2013. Anche in questo caso cresce la presenza femminile in corsi tradizionalmente maschili come quelli scientifici e ingegneria anche se esiste tutt’oggi una forte caratterizzazione dal punto di vista del genere dei corsi universitari: nei corsi di tipo umanistico è molto elevata la presenza femminile, mentre rimane minoritaria nei corsi dei gruppi Scientifico e Ingegneria. Le donne riducono lo svantaggio di genere nell’uso delle nuove tecnologie, questa riduzione è dovuta soprattutto alle donne giovani che hanno raggiunto la parità ma anche alle donne adulte. Si sta spostando in avanti l’età in cui le differenze di genere sono elevate e raggiungono il massimo nelle età anziane» precisa la Dottoressa Sabbadini, una laurea in Scienze Statistiche e Demografiche, che ha guidato in Italia un processo di rinnovamento radicale e di sviluppo nel campo delle statistiche ufficiali sociali e di genere dagli anni Novanta e che nel 2006 è stata insignita dal Presidente Ciampi dell’onorificenza di commendatore.

L’Istat nel 2004 ha presentato, insieme al Ministero per le Pari Opportunità, il volume “Come cambia la vita delle donne” con l’obiettivo di fare il punto sulle principali trasformazioni avvenute nel mondo femminile. A oltre dieci anni di distanza, quanto è mutato il ruolo delle donne e il loro contesto di vita nella famiglia, nel mondo del lavoro e nella società?
«La vita delle donne sta cambiando profondamente. Le donne investono di più in cultura, riescono di più negli studi, premono di più sul mercato del lavoro, vogliono realizzarsi su tutti i piani. I percorsi di vita sono sempre più frastagliati. Dal punto di vista delle esperienze nel campo della vita familiare gli anni in esame sono stati caratterizzati da un aumento della permanenza in famiglia delle giovani donne nella fascia d’età 25-34 anni, mentre gli uomini, già su livelli più elevati, sono rimasti stabili. I modelli di transizione alla vita adulta delle donne si avvicinano quindi a quelli degli uomini. Gli anni di crisi rendono più simile la condizione dei giovani in famiglia nelle diverse realtà del Paese: a causa di un deterioramento complessivo delle possibilità di lavoro si riducono i divari territoriali in termini di presenza di giovani occupati in famiglia e ciò si acuisce per le nubili, soprattutto nel Mezzogiorno, che ricoprono il ruolo di figlia occupata in misura molto marginale. Il rinvio delle tappe di formazione della famiglia è accompagnato dalla crescita dei periodi di autonomia come single, anche se i livelli delle donne sono inferiori a quelli degli uomini. Conseguentemente, tra le giovani adulte è in calo la condizione di genitore e quella di partner in coppia così come avviene anche per gli uomini. Continua la diminuzione dei matrimoni mentre cresce l’esperienza delle unioni consensuali e delle seconde nozze. Aumenta l’età media alle prime nozze, specie per gli sposi, e le spose in media oltrepassano i 31 anni. Calano in particolare i matrimoni celebrati con rito religioso. La crescente preferenza verso il rito civile si va diffondendo anche tra i primi matrimoni, mentre in passato tale modalità era prerogativa dei matrimoni successivi al primo e di quelli misti. La fecondità, dopo aver registrato un minimo storico nel 1995, ha visto una lenta ripresa che è durata fino al 2010, dopodiché ha ripreso a diminuire, interessando sia le italiane sia le straniere residenti. La condizione di madre nelle giovani età è assai poco diffusa per effetto del rinvio della fecondità proseguito anche nell’ultimo decennio per le italiane e riscontrato anche per le straniere. La maternità è rimandata ma è anche vissuta dalle donne con maggiore attenzione in particolare nella fase dell’allattamento: più donne allattano al seno e lo fanno per periodi più lunghi. Il controllo della fecondità con metodi contraccettivi riguarda il 57,4 per cento delle donne e il 65,6 per cento degli uomini che ricorrono prevalentemente al preservativo e alla pillola. In un Paese a forte controllo della fecondità, continua a diminuire il ricorso all’interruzione volontaria della gravidanza sia tra le italiane sia tra le straniere, ma queste ultime mantengono un rischio superiore alle prime. Le separazioni dopo una fase di aumento, subiscono una battuta d’arresto; tale flessione si era già verificata da qualche anno nei divorzi. Crescono comunque le donne che sperimentano una separazione o un divorzio e così anche gli uomini. I percorsi di vita di uomini e donne separati differiscono, uomini più single e donne più madri sole. L’Italia risulta essere uno dei paesi con il più alto livello d’invecchiamento, dovuto sia all’aumento della sopravvivenza alle età elevate, sia ai bassi livelli di fecondità. Pur confermandosi il noto vantaggio in termini di longevità a favore delle donne, la crescita della speranza di vita degli uomini risulta essere ancora più sostenuta. Questo si riflette anche sulla vita delle donne anziane: aumentano le donne anziane che vivono con il loro partner, e diminuiscono quelle che vivono come membri aggregati ad altre famiglie per effetto di migliori condizioni di salute».

E sul lavoro quali novità emergono negli ultimi 10 anni?
«L’andamento dell’occupazione femminile negli ultimi dieci anni ha risentito della crisi, che ha fermato il trend positivo di aumento degli anni precedenti. Nel complesso, la crescita dell’occupazione femminile nel periodo 2004-2014 è più che dimezzata in confronto al precedente decennio, e il tasso di occupazione femminile aumenta soltanto per le donne con almeno 50 anni, mentre rimane sostanzialmente invariato per le 35-49enni e diminuisce per le più giovani. D’altro canto la congiuntura negativa ha colpito soprattutto l’industria manifatturiera e le costruzioni, settori nei quali è più spesso coinvolta mano d’opera maschile. Rimangono forti barriere all’ingresso nel mercato del lavoro, discontinuità dei percorsi lavorativi, difficoltà di superamento del “tetto di cristallo”, e un fenomeno di sovraistruzione più elevato rispetto agli uomini, anche se l’occupazione femminile ha tenuto più di quella maschile e passi in avanti si evidenziano anche nelle posizioni delle donne nei luoghi decisionali politici ed economici. Il titolo di studio conseguito è ancora determinante per la partecipazione delle donne al mercato del lavoro e nel Mezzogiorno la laurea è elemento fondamentale per entrare nel mercato del lavoro. Si ampliano i divari territoriali dal momento che, a fronte di un saldo positivo del tasso di occupazione femminile totale tra il 2004 e il 2014, nel Mezzogiorno si osserva una sua lieve contrazione, contro una crescita nel Centro e nel Nord: 25 sono i punti percentuali di differenza dei tassi di occupazione tra Centro-nord e Mezzogiorno. Complessivamente, sommando disoccupate e forze lavoro potenziali, le donne che vorrebbero lavorare nel Mezzogiorno arrivano a 1 milione 932 mila, di cui solo il 33 per cento cerca attivamente lavoro ed è disponibile, mentre al Centro-nord, l’aggregato è meno numeroso (1 milione 629mila) e costituito per oltre la metà da disoccupate. Persiste nel Mezzogiorno uno “zoccolo duro” di donne da sempre fuori dal mercato del lavoro: nel 2014, il 40,8 per cento delle donne tra i 15 e i 64 anni non ha mai lavorato nella vita, contro il 20,4 per cento nel Centro e il 16,7 per cento nel Nord. Tra il 2004 e il 2014 il lavoro a tempo parziale è l’unica forma di lavoro in crescita, anche negli anni della crisi, mentre le occupazioni a tempo pieno si sono notevolmente ridotte. Tuttavia, più che rappresentare una scelta di conciliazione portata avanti dalle lavoratrici, la crescita del part time è stata in realtà una delle strategie delle aziende per far fronte alla crisi: specie dal 2008, l’incremento del lavoro part time è soprattutto di tipo involontario, vale a dire scelto in mancanza di occasioni di lavoro a tempo pieno. Nonostante il numero di lavoratori temporanei tra gli uomini sia maggiore, la minore consistenza dell’occupazione femminile rende l’incidenza degli atipici sul totale degli occupati più elevata tra le donne. In Italia il lavoro atipico non può essere considerato una prerogativa dei più giovani, investendo anche soggetti con responsabilità familiari. Peraltro, il forte incremento del part time ha investito anche il lavoro a termine, rappresentando così una condizione di doppia vulnerabilità. In questo periodo l’incremento della presenza delle donne nei luoghi decisionali è stato rilevante sia sul versante delle donne elette in Parlamento, sia di quelle nominate nel governo, sia all’interno dei consigli di amministrazione delle so­cietà quotate in borsa, sia, infine, nelle posizioni apicali delle dipendenti della Pubblica amministrazione. A fronte di tale tendenza non si possono non registrare le notevoli differenze che separano le donne dai corrispettivi livelli occupati dagli uomini, nonché dalla profonda eterogeneità riscontrata nei vari contesti. L’esperienza riportata dalle donne in termini di rinunce fatte nella loro vita lavorativa, di svantaggi sperimentati nello svolgimento del loro lavoro, in conseguenza del loro essere donne, e di eventi discriminatori subiti, è molto superiore a quella degli uomini».

Sono molte le donne che lasciano il lavoro in seguito ad una gravidanza?
«L’interazione maternità-lavoro è uno dei momenti più delicati nella vita di una donna. La nascita di un bambino comporta, infatti, una profonda riorganizzazione della vita sia sul piano personale e familiare sia su quello lavorativo. Su questo fronte purtroppo non c’è miglioramento anzi la situazione peggiora. Nel 2012 quasi una madre su quattro di quelle occupate in gravidanza non lavora più al momento dell’intervista, la situazione è in peggioramento rispetto a 7 anni prima. Tra le madri occupate in gravidanza, a lasciare o perdere il lavoro sono prevalentemente quelle residenti nel Mezzogiorno (29,8 per cento), le più giovani (46,5 per cento delle madri con meno di 25 anni), quelle con basso livello d’istruzione (30,8 per cento). Il titolo di studio, in particolare, è un fattore rilevante per la partecipazione femminile al mercato del lavoro: lasciano o perdono il lavoro solo il 12,3 per cento delle neo-madri occupate in gravidanza con alto livello d’istruzione, a conferma del ruolo protettivo svolto dal titolo di studio non solo sull’ingresso nel mercato del lavoro, ma anche sulla permanenza a seguito della maternità. In Italia la situazione di conciliazione dei tempi di vita è particolarmente critica. Il part time cresce non come strumento di conciliazione ma solo come part time involontario. La rigidità dei ruoli di genere continua a essere elevata e ciò comporta un forte sovraccarico di lavoro di cura sulle donne. I servizi sociali per l’infanzia continuano a essere scarsi. La rete di aiuto informale è sempre più in difficoltà nel supportare le donne che lavorano. Gli stereotipi di genere ancora molto diffusi contribuiscono a non sbloccare la situazione in termini di redistribuzione del lavoro di cura nella scuola e nella società».

Dal Dossier risulta che il 44% delle donne (dieci milioni) ha fatto delle rinunce sul lavoro, contro il 19.9 % degli uomini, le donne italiane sono ancora lontane dagli standard europei?
«Complessivamente, nel nostro Paese sono poco meno di 10 milioni, pari al 44,1 per cento della popolazione femminile tra 18 e 74 anni, le donne che nel corso della loro vita, a causa di impegni e responsabilità familiari, per una gravidanza o semplicemente perché i propri familiari così volevano, hanno rinunciato a lavorare. Oppure hanno dovuto interrompere il lavoro, o non hanno potuto accettare un incarico lavorativo o, ancora, non hanno potuto investire come avrebbero voluto nel proprio lavoro, perché hanno preso, per esempio, congedi con retribuzione parziale, hanno ridotto le ore di lavoro o accettato incarichi di minore importanza. La stessa esperienza è vissuta da un ammontare di uomini pari a meno della metà (poco più di 4 milioni, 19,9 per cento della popolazione maschile della stessa fascia d’età). Anche le rinunce multiple riguardano le donne più spesso degli uomini. Circa 2 milioni e 600 mila (pari all’11,7 per cento) donne tra 18 e 74 anni hanno vissuto, nel corso della loro vita, almeno tre delle esperienze considerate, contro circa 600 mila uomini (2,8 per cento della popolazione maschile). La rinuncia più frequente è quella che riguarda l’inizio o la ricerca di un lavoro (30,9 per cento delle donne a fronte del 12,7 per cento degli uomini). In valori assoluti hanno vissuto questa esperienza 6 milioni 888 mila donne: di queste il 21,7 per cento, pari a circa 1 milione e mezzo, non ha mai fatto ingresso nel mercato del lavoro, neppure per un periodo limitato. I motivi principali che hanno indotto le donne a rinunciare, in un qualche momento della loro vita, a entrare nel mercato del lavoro sono nell’ordine: il dover accudire un bambino troppo piccolo, il doversi occupare della famiglia e l’aspettare un bambino (13,3 per cento). Anche l’esperienza di smettere di lavorare per un periodo o cambiare tipo di lavoro a causa degli impegni e delle responsabilità familiari o perché qualcuno della famiglia non voleva è più diffusa tra le donne: è successo al 26,1 per cento di quante lavorano o hanno lavorato in passato (a fronte del 6,1 per cento degli uomini). Per le stesse ragioni, un quinto delle donne (e l’8,6 per cento degli uomini) ha rinunciato nel corso della propria vita lavorativa a un particolare incarico che avrebbe invece voluto accettare. Infine, a un quinto delle donne (e assai meno uomini) che lavorano o hanno lavorato in passato, è capitato di prendere congedi con retribuzione parziale, di ridurre le ore di lavoro o accettare un incarico di minore importanza, a causa delle responsabilità familiari o per contrarietà dei familiari».

Un nuovo soggetto femminile è emerso negli ultimi dieci anni, le immigrate, con un peso rilevante nella società italiana. Ce ne vuole parlare?
«L’aumento della popolazione residente in Italia a cui si è assistito nel periodo 2004-2014 è il frutto dell’evoluzione dei comportamenti socio-demografici in atto. La presenza straniera è sempre più radicata e contribuisce, in maniera diretta e indiretta, alle modificazioni strutturali della popolazione. La femminilizzazione dei processi migratori, in atto da diversi anni, è l’effetto di una modificazione dei progetti migratori, che vedono sempre di più la donna coinvolta in una migrazione dovuta non solo ai ricongiungimenti familiari ma anche a motivi di lavoro. Certo cambiano i modelli di partecipazione al lavoro tra le diverse comunità, le marocchine e le albanesi presentano basso inserimento nel mercato del lavoro, romene, ucraine, cinesi, filippine e peruviane hanno un tasso di occupazione molto più alto anche per motivi culturali. Tra i marocchini sono gli uomini ‘apripista’, poi raggiunti da donne e bambini, tra le filippine sono le donne ‘apripista’. Anche le donne immigrate presentano titoli di studio più alti degli uomini. Spiccano in questo senso le ucraine e le rumene, mentre più svantaggiate sono le marocchine e le cinesi. Oltre un quarto delle donne straniere ha difficoltà nella scrittura della lingua italiana, un quinto nella lettura, il 15 per cento nella conversazione. Il maggiore investimento in formazione si evidenzia anche nella propensione più accentuata delle donne straniere a seguire corsi di lingua italiana».