Islam, cristianesimo, tolleranza. Bel problema. E attualissimo

È lecito in materia di religione mischiare le carte, nel tentativo di produrre una confusione creativa?

BIBBIA: VA’ E AMMAZZA. IL CORANO: DIO E’ LUCE

Rispondendoci da soli di sì, proviamo a considerare due testi, il primo dai toni truculenti, il secondo radioso e pervaso da uno spirito universalistico:
“Va’ dunque e colpisci Amalek e vota allo sterminio quanto gli appartiene, non lasciarti prendere da compassione per lui, ma uccidi uomini e donne, bambini e lattanti, buoi e pecore, cammelli e asini”.

“Dio è la luce dei cieli e della terra. La Sua luce è come una nicchia, nicchia in cui si trova una lampada, lampada entro un vetro, vetro come un astro sfavillante. Ha luce da un albero benedetto, un olivo né d’Oriente né d’Occidente, il cui olio illumina quasi senza che fuoco lo tocchi. Luce su luce”.
Il primo brano – alcuni l’avranno riconosciuto – è tratto dalle Scritture ebraiche e cristiane: nel Primo libro di Samuele, per bocca del profeta, Dio prescrive al re Saul di attuare una sorta di genocidio – esteso persino agli armenti – contro un popolo nemico di Israele. Il secondo testo figura invece nel Corano, nella Sura XXIV (An-Nûr, “La Luce”).

PROBLEMA COMPLICATO

Che cosa ci proponevamo, con questo piccolo gioco di citazioni? Di provare che un po’ tutte le religioni, indifferentemente, sarebbero esposte alla tentazione dell’intolleranza? No: più modestamente, volevamo suggerire che la questione dei rapporti tra le fedi monoteistiche e la pratica della violenza è seria e complicata; certo può essere rassicurante (ma, forse, è semplicemente sbagliato) sostenere senza distinzioni che queste fedi originariamente avrebbero predicato la pace e che solo per un malinteso, per un travisamento del messaggio iniziale i rispettivi seguaci avrebbero incrociato più volte le armi, nel corso dei secoli.

I MOLTI DÈI TOLLERANTI L’UNICO DIO INTOLLERANTE?

Potremmo considerare lo stesso tema da un’altra prospettiva: almeno in linea di principio, finché la dimensione religiosa rappresenta un’estensione della sensibilità umana, finché gli dèi personificano particolari energie o fenomeni naturali, la tolleranza verso i seguaci di diversi culti non riesce difficile. Nell’antica Roma, avevano piena cittadinanza i riti di derivazione orientale di Mitra, di Attis o di Iside, e Adriano non ebbe problemi nel divinizzare il suo favorito Antinoo, dopo la prematura morte di quest’ultimo, diffondendone poi il culto in tutto l’impero. Il problema sorge, piuttosto, quando le religioni si fanno portatrici di un messaggio di verità, sul presupposto che Dio abbia parlato agli uomini: il principio espresso in Esodo 20,3 («Non avrai altri dèi di fronte a me») è ripreso e portato all’estremo in un’altra sura coranica (Al-Ikhlâs, “La pura Fede”: «Egli, Dio, è Uno. Dio, l’Eterno. Non genera e non è generato. Nessuno è simile a Lui. Egli è Uno»).

UN CONVEGNO PER CAPIRE MEGLIO

Si propone appunto di indagare questo intrico di problemi il convegno di studio Monoteismi in dialogo, promosso dal dipartimento di Lettere, Filosofia, Comunicazione dell’Università di Bergamo e in programma da lunedì pomeriggio alle 15 a mercoledì mattina presso la sede universitaria di Sant’Agostino; nelle quattro sessioni dei lavori – aperti al pubblico – figureranno come relatori i filosofi Massimo Donà, Elisabetta Colagrossi e Roberto Celada Ballanti, lo storico Marco Pellegrini, l’ebraista Ida Zatelli, il domenicano fra Fausto Sbaffoni, l’islamista Ida Zilio Grandi e lo studioso di mistica Marco Vannini (il programma completo può essere scaricato cliccando qui).

IL DIO UNICO E LE SUE PRETESE

Particolarmente interessante/provocante dovrebbe risultare l’intervento su Il Dio unico e le sue pretese che Elisabetta Colagrossi, dottore di ricerca presso l’Università di Genova, terrà lunedì, riprendendo le tesi dell’egittologo Jan Assmann. Ne Il disagio dei monoteismi, un volumetto in forma di intervista curato dalla stessa Colagrossi e pubblicato recentemente da Morcelliana (pp. 95, 11 euro), lo studioso tedesco chiarisce il senso di una formula da lui coniata, di regola tradotta in italiano con «distinzione mosaica» (ma l’espressione originaria, mosaische Unterscheidung, risulta forse più drastica, evocando l’idea di una cesura radicale nella storia delle religioni). Assmann parte dal riconoscimento che nel paganesimo greco e romano i seguaci di un particolare culto non gli attribuivano pretese esclusive di “verità”, rispetto ad altri; ancora nel IV secolo dopo Cristo, nella sua disputa con il vescovo Ambrogio, Quinto Aurelio Simmaco difendeva la pluralità delle credenze religiose, come modi differenti e legittimi per accostarsi alla realtà insondabile di un’unica Divinità («Non si può giungere per una sola via a un mistero così grande»). Con l’Antico Testamento e in misura ancora maggiore con il cristianesimo – secondo Jan Assmann-, il baricentro dell’esperienza religiosa verrebbe invece a coincidere con la coppia concettuale «vero/falso» e con la relativa discriminazione tra chi riconosce e chi misconosce il vero Dio. Assmann, come antidoto contro l’intolleranza e il fanatismo, avanza la proposta di una nuova religiosità o spiritualità non più pensata in termini esclusivisti: «Solo come religio duplex, vale a dire come una religione a due piani, che ha imparato a concepirsi come una tra le molteplici e a guardarsi con gli occhi degli altri, e che nondimeno non ha perso di vista il Dio nascosto o la verità nascosta come punto di fuga comune a tutte le religioni, la religione stessa può trovare posto nel nostro mondo globalizzato».

IL RISCHIO DI RISOLVERE ALLEGGERENDO I DOGMI

Indubbiamente, questo modo di pensare è oggi assai diffuso, perlomeno in un Occidente sgomento di fronte alla manifestazioni più splatter del fondamentalismo religioso. Rimane il dubbio sull’effettiva rilevanza, su dove conduca una teologia “alleggerita” dei vecchi dogmi e disposta a discutere su tutto, dato che ogni discorso umano sul divino avrebbe solo il valore di una pallida allegoria. Un’alternativa potrebbe forse essere quella di domandarsi se una particolare tradizione religiosa (il cristianesimo, per esempio) abbia o non abbia in se stessa delle risorse utili per non cristallizzarsi, per interpretare in modo nuovo anche quei suoi testi fondativi che pure – come si era visto nell’esempio iniziale – sembrerebbero qua e là giustificare il ricorso a una «violenza sacra». Istruttiva potrebbe essere, da questo punto di vista, la relazione che Marco Pellegrini – docente di Storia moderna all’Università di Bergamo e ideatore del convegno Monoteismi in dialogo – terrà martedì mattina sul tema Pluriprospettivismo e tolleranza: «Mi soffermerò – egli dice – su alcuni grandi rappresentanti della tradizione occidentale, tra rinascimento e illuminismo. Questi autori sono accomunati dalla volontà di studiare le altre religioni, non in nome di un vago sincretismo, ma nella speranza di rinvenire in esse le tracce di una rivelazione divina che ha come destinatario l’intero genere umano». «Anticipando le posizioni di Castellion e Bayle – prosegue Pellegrini –, già all’inizio del Cinquecento ferventi cristiani come Erasmo da Rotterdam rivendicavano il principio della tolleranza come dovere etico: colui che sostiene dottrine diverse o anche erronee in materie di fede non decade per questo dalla dignità umana e va rispettato».