Minigonna o hijab? La libertà non è solo poter scegliere ma saperlo fare

L’abbigliamento femminile fa sempre notizia, per motivi opposti ma che, in un certo senso, hanno a che fare con il rispetto e con la libertà.
Partiamo dalla lunghezza della gonna. In Olanda, nel distretto di Nieuw-West, uno dei più grandi di Amsterdam, qualche settimana fa alle dipendenti pubbliche è arrivata una circolare, a firma di una dirigente del personale, in cui si dice che le impiegate allo sportello “non devono indossare una gonna o un vestito che arrivino sopra il ginocchio” e che “gli stivali al ginocchio sono inappropriati durante il lavoro al banco”. La notizia è rimbalzata sulle pagine di alcuni quotidiani italiani con un’interpretazione orientata in senso confessionale: il divieto di minigonna sarebbe stato preso per non “irritare” o “urtare” i musulmani. La verità è molto più banale e ha a che fare più con il buon gusto e il decoro sul luogo di lavoro. Secondo quanto riferito dall’emittente locale AT5, l’e-mail di richiamo è seguita a una discussione tra il personale dopo che una delle dipendenti si è presentata al lavoro con una gonna così corta “che si potevano vedere le sue natiche”. Ma il dibattito è stato tale sui social network e sui media, che lo stesso consiglio comunale di Amsterdam è dovuto intervenire prima su Twitter, spiegando che “i dipendenti pubblici agli sportelli dovrebbero vestire in modo curato. Spetta a loro decidere come farlo” e poi con un comunicato ufficiale in cui si precisava che “non era stato stabilito alcun divieto alle gonne corte” e che la mail era stata inviata come “chiarimento a seguito di una disputa interna, e non come risposta a qualche reclamo ricevuto dagli utenti dell’ufficio”. Insomma, i lavoratori “sono tenuti a vestire in modo rappresentativo e professionale”, ma alla fine spetta a loro decidere come interpretare questa generica indicazione di codice di abbigliamento. Non c’entra la religione, ma il buon senso e l’idea, che a qualcuno pare obsoleta e superflua, che un ufficio non sia una discoteca. Nessuno vuole inibire le grazie muliebri, ma per lasciare poco spazio all’immaginazione di chi guarda vi sono ambienti più adatti di uno sportello dell’anagrafe.
Su altro fronte è notizia di qualche mese fa della prima linea di abiti dedicati alle donne musulmane realizzata da una coppia di stilisti italiani che hanno spesso dato spazio alla femminilità esposta, più che nascosta. Dolce & Gabbana hanno infatti disegnato e presentato una collezione di hijab (il velo per coprirsi il capo) e abaya (una veste scura che copre tutto il corpo tranne il volto e le mani). I colori usati sono quelli della tradizione, beige e nero, ma gli abiti presentano gli elementi tipici della casa di moda: ricami, pizzi, pietre, decorazioni floreali, stampe di limoni e margherite. Il tutto corredato da gioielli vistosi, grandi occhiali da sole e borsette in stile maison. Laurence Rossignol, ministro francese per la famiglia, ha quindi accusato D&G e altri gruppi di moda (perché i nostri non sono i soli ad aver fiutato l’affare della moda islamica, stimato intorno ai 366 miliardi di dollari) di aiutare a “perpetrare la schiavitù” delle donne islamiche, producendo abiti mortificanti della loro libertà. Non si può che esprimere la massima solidarietà con chi subisce l’imposizione del velo contro il proprio volere ed è costretta a nascondersi sotto quel terribile burka che annienta l’esistenza stessa della donna: una prigione di stoffa. Ma, allo stesso tempo, non si può non considerare, al femminile, che nel momento in cui invece un determinato tipo di abbigliamento è portato per volontà, cultura condivisa, scelta personale, perché non è possibile poter accedere a dei bei vestiti? A Roma e Milano le nostre strade della moda (come anche quelle di Parigi, o Londra) sono percorse da donne islamiche velate che comprano gioielli, borse e scarpe di alta moda o biancheria firmata, senza badare a spese. Perché non dovrebbero poter acquistare anche un abito in cui si sentano a proprio agio e che sia anche bello? Se vogliamo, giustamente, essere libere di indossare un microabito bellissimo e dal costo esorbitante, dovremmo riconoscere la stessa possibilità anche a chi preferisce (sul serio) lo stesso modello ma in versione più castigata. Nessuno deve imporre a una donna come vestirsi, ma va sempre tenuto presente che la vera libertà non è semplicemente poter scegliere, quanto il saperlo fare.