Nawal, l’angelo che aiuta i profughi in fuga dalla guerra. Una storia oltre le frontiere

Il giornalista Daniele Biella sarà nella sala polifunzionale dell’oratorio di Presezzo giovedì 12 alle 20,45 per un incontro-testimonianza organizzato dal Celim Bergamo con il Comune di Presezzo. Biella dialoga con Hagos Kidane, mediatore linguilistico culturale di origine eritrea che ora si occupa delle pratiche di soccorso in mare e delle procedure per il riconoscimento della protezione internazionale alla questura di Milano.

Riceve Sos dal mare ad ogni ora del giorno e della notte, tanto da essere diventata in poco tempo un punto di riferimento per la Guardia costiera italiana. La chiamano l’angelo dei profughi, ma è una ragazza in carne ed ossa dal cuore grande e generoso che, oltre a dividersi tra casa, università e lavoro, dedica ormai la maggior parte del suo tempo ad aiutare i migranti che arrivano sulle nostre coste, in fuga dalle guerre. Lei si chiama Nawal e la sua storia è ora diventata un libro, «Nawal, l’angelo dei profughi» (Edizioni Paoline, pp. 152, euro 13), grazie alla penna del giornalista Daniele Biella.

Per il suo lavoro  come giornalista tratta spesso la tematica delle migrazioni e in questi ultimi anni ha avuto sempre un occhio di riguardo per le storie dei profughi arrivati sulle nostre coste, in particolar modo per i siriani, sempre più numerosi. Tra le storie in cui si è imbattuto, nell’ottobre scorso, proprio quella di Nawal. Come è stato il vostro primo incontro, come ha saputo di questo “angelo dei profughi”?
«Lo scorso 2 agosto 2014 avvenne un terribile naufragio al largo delle coste della Libia, la stima fu di almeno 250 dispersi, tra cui 30 bambini. Incontrai nei giorni seguenti una coppia siriana poco più che 30enne che perse in quella tragedia tutti e 4 i propri figli, da 1 a 8 anni: avevano ancora la speranza di trovare i bambini tra i superstiti, in altre zone d’Italia, per questo venne lanciato un appello e oltre a contattare le sedi istituzionali appropriate entrai in contatto con una rete di volontari che si occupava di recuperare informazioni su ogni naufragio. Nawal era ed è la persona che più di tutti, in particolare per quanto riguarda i siriani, riceve chiamate dei parenti e raccoglie indicazioni e testimonianze: fu così che la conobbi. In quel caso non ci furono miracoli e non si trovò nessun disperso, ma mi resi subito conto della grande portata di quello che faceva».

Come è nata poi l’idea di trasformare la sua storia in un libro?
«Ho scritto un articolo per Vita.it che raccontava l’operato di Nawal, che ha avuto molta eco sul web e non solo, tanto che sono stato contattato direttamente dalla casa editrice Paoline che mi proponeva l’idea di scrivere un libro su di lei, che a 27 anni ha già avuto un’esistenza piena di significato. Ne ho parlato con Nawal, che ha accettato e da quel momento ci siamo incontrati più volte per parlare della sua vita, già con l’idea che la sua storia di dedizione verso gli altri potesse essere letta dalle persone come stimolo a rimboccarsi le maniche e darsi da fare verso chi è più disagiato».

Come mai questo titolo per il libro?
«L’idea di Nawal come un angelo viene dagli stessi profughi siriani, che trovano la ragazza dall’altra parte del telefono satellitare quando lanciano la chiamata di sos e poi, una volta riusciti a sopravvivere al viaggio in mare, la ritrovano anche in stazione a Catania dove li aiuta a recuperare le energie fisiche e mentali prima di continuare il viaggio verso Nord, e soprattutto evitando che i trafficanti di terra approfittino della loro condizione per sottrarre loro soldi nel rivendere i biglietti del treno o le schede telefoniche».

Il libro non racconta una storia romanzata, ma una storia vera, il coraggio di questa giovane ragazza che, armata di un solo cellulare, è diventata il punto di riferimento per i siriani in fuga dalla guerra. Qual’è stata la parte di questa storia che l’ha emozionata di più mentre la stava scrivendo?
«I racconti dei salvataggi in mare, i momenti tra la vita e la morte quando queste persone, in preda al panico, si affidano a Nawal che recupera le loro coordinate e le comunica alla Guardia Costiera che esce a salvarli. Nel libro si narra di un episodio in cui lo stesso ente navale la richiama chiedendole di convincere un gruppo di 300 profughi a salire sul mercantile che li stava recuperando ma del quale loro non si fidavano con la paura che venissero rimandati indietro da dove erano partiti. Nawal, a migliaia di chilometri di distanza, riuscì a convincerli con parole misurate ma decise e soprattutto empatiche. L’empatia, l’amore verso l’umanità è quello che più di tutti sembra guidare la sua opera, che la rende una delle persone più stimate della mia vita».

Il libro nasce in un periodo non di certo semplice, in cui si continua a parlare di “strategie migratorie”: da una parte c’é chi sottolinea la responsabilità europea e dall’altra chi chiede che vengano chiuse ulteriormente le frontiere…pensa che la lettura di questa storia possa aiutare a cambiare lo sguardo su questa realtà?
«Sì, ed è uno degli obiettivi del libro: sapere che c’è una persona “normale” che si mette in gioco così tanto – le chiamate di sos le arrivano a tutte le ore del giorno e della notte, da due anni, mentre lei sta portando avanti la sua vita di studiosa universitaria e lavoratrice come mediatrice linguistica nei Tribunali siciliani – per il prossimo, per chi scappa da guerre e persecuzioni, può essere uno stimolo per tante persone a darsi da fare, ognuno verso la necessità che reputa più utile, in particolare riguardo alla delicata questione dell’accoglienza di queste persone, che hanno bisogno di aiuto da parte europea così come gli europei, italiani in primis, ne hanno avuto bisogno nell’esodo del Dopoguerra verso le Americhe».

Qual è il messaggio che vuole trasmettere attraverso il libro?
«Proprio quanto sia semplice ma fondamentale il mettersi al servizio dell’altro, nelle modalità in cui ciascuno di noi può farlo, naturalmente, perché fare volontariato, aiutare chi ha più bisogno di noi è un’opera che si può fare se si ha la possiblità, se non si è già alle prese con problemi personali di carattere economico o altro. La storia di Nawal supera le frontiere: a un mese di vita è arrivata dal Marocco a Catania, 27 anni dopo la Sicilia ha un posto privilegiato nel suo cuore così come ogni persona, ogni famiglia che passa dalla Sicilia alla ricerca di una vita migliore dopo avere vissuto la tragedia delle bombe, dei terribili viaggi della speranza nel Mar Mediterraneo».

Ha  previsto tappe bergamasche di presentazione del libro?
«Molto probabilmente in autunno, a Bergamo. Da più parti è già stato segnalato un interesse in tal senso, e la cosa mi fa molto piacere, naturalmente, essendo io stesso bergamasco da parte di madre e avendo studiato Lingue e letterature straniere all’Università in Città alta, dove ho vissuto quasi due anni, prima di tornare a vive in Brianza dopo l’anno di esperienza di servizio civile all’estero, in Cile, dopo il quale ho iniziato a fare il giornalista e ad occuparmi di educativa anche in Italia. Sia il capoluogo che la provincia bergamasca sono piene di realtà solidali, di migliaia di persone che ogni giorno compiono azioni lodevoli per aiutare chi ha più bisogno, italiano o straniero, per portare umanità laddove i problemi della vita hanno portato disagio e mancanze».