Il prete, la povertà, la Chiesa. Dopo le parole di Papa Francesco

“IL SUO STILE DI  VITA SEMPLICE ED ESSENZIALE”

“Non cerca assicurazioni terrene o titoli onorifici, che portano a confidare nell’uomo; nel ministero per sé non domanda nulla che vada oltre il reale bisogno, né è preoccupato di legare a sé le persone che gli sono affidate. Il suo stile di vita semplice ed essenziale, sempre disponibile, lo presenta credibile agli occhi della gente e lo avvicina agli umili, in una carità pastorale che fa liberi e solidali”. Così Papa Francesco, qualche giorno fa. Parlava del prete. I media hanno interpretato le parole del Papa soprattutto come un invito alla povertà, allo stile evangelico di vita. Vale la pena porsi qualche domanda al riguardo.

DIFFICILE ESSERE POVERI IN UNA CHIESA RICCA

Il prete di oggi, quello di Bergamo in particolare, sembra trovarsi, di primo acchito, in grossa difficoltà a vivere questo messaggio. Anche quando è povero non lo si vede perché si trova dentro una struttura ricca. Anche se decide di andare a vivere in una tenda collocata sul sagrato, resta comunque “proprietario” della casa dalla quale è uscito. Questo prete povero, cioè, è comunque rappresentante di una Chiesa ricca. La quale Chiesa si ritrova così, soprattutto per la sua lunga storia che l’ha sovraccaricata di cose, di case, di strutture di ogni tipo dalle quali adesso è difficile liberarsi. Il prete può mettersi a fare il monaco, ma rischia di non essere più prete perché non ha più a disposizione le cose che gli servono per fare il prete.

POVERTÀ È SOPRATTUTTO SOBRIETÀ

Se si dovesse dire con una battuta il senso di questa difficile sintesi si potrebbe dire che il nome preciso della povertà del prete è la sobrietà. E la sobrietà è fatta di tante piccole, piccolissime cose. Dal vestito, alla macchina, alle cose di casa, al modo di usare il tempo libero… E soprattutto dalla disponibilità a usare non per sé i beni di cui è ricca la Chiesa. Se un prete ha una casa parrocchiale immensa non è colpa sua. Ma ha davanti a sé due possibilità: usarla come casa sua e farla diventare la propria reggia personale oppure usarla il più possibile come casa di tutti e farla diventare casa della comunità. Una ricchezza condivisa, la casa usata per tutti nella fattispecie, non è più ricchezza o le è molto di meno.

CONDIVISIONE

Questa, mi sembra sia la via buona da battere: più che non avere è urgente avere insieme. Un prete in comunità non è lì per buttare la cose che ci sono ma per fare in modo che le cose che ci sono siano il più possibile a disposizione di tutti.

In questo senso aiuterà anche la normativa, contenuta nelle Costituzioni sinodali pubblicate il settembre del 2007, che stabilisce che un parroco, normalmente, non può restare in una parrocchia più di nove anni. I primi parroci nominati dopo quella data vengono a scadenza quest’anno.

In fondo, un parroco non ha tempo di appropriarsi delle cose di una parrocchia perché, a un certo punto, deve mollare tutto. Per obbedienza. E anche questo, a lungo andare, servirà a creare uno stile, sempre meno clericale, sempre più ecclesiale.