Riportiamo alcune pagine del saggio “Chiesa e Quartiere” dell’architetto Carla Zito, dal volume “L’inno di cemento”, pubblicato in occasione del 50° anniversario della dedicazione della chiesa della Beata Vergine Immacolata di Longuelo.
Negli ultimi anni, ci si è resi conto che restituire la storia di un edificio di culto non è semplice; la ricerca storiografica si sta facendo portavoce di una diffusa esigenza di conoscenza non superficiale dell’architettura sacra contemporanea per riconoscerne il valore identitario rispetto al contesto storico-sociale, religioso e urbanistico (ciò accade soprattutto per quelle opere religiose progettate negli anni del boom economico troppo spesso anonime e scarsamente studiate).
L’edificio-chiesa realizzato negli ultimi decenni nelle periferie italiane riveste un ruolo cruciale per l’identità storica di interi quartieri popolari. Così come, dal punto di vista liturgico, tali realizzazioni, come una forma di “magistero dello spazio”, sono correlate con il progresso della consapevolezza ecclesiale rispetto alla riforma liturgica manifestata nel corso del XX secolo a partire dal Movimento Liturgico, con l’enciclica Mediator Dei (1947) e col Concilio Vaticano II. Il fine della Sacrosanctum Concilium non è “la riforma liturgica” ma è trovare il modo di far partecipare tutti i soggetti al mistero celebrato (rimuovendo gli ostacoli). Le trasformazioni dello spazio liturgico risentono quindi di una duplice trasformazione: l’evoluzione del “rito” come nuovo linguaggio aperto alla comunità e poi il concetto di “actuosa participatio”. Si passa da una partecipazione essenzialmente interiore ad una “per ritus et preces”, nuovi strumenti per un nuovo linguaggio ecclesiale che si adegua alla cultura antropologica contemporanea.
Anche nel caso di Longuelo accade ciò. La comunità parrocchiale attendeva la nuova costruzione da circa 70 anni in una delle zone periferiche sempre più popolose della città di Bergamo. Nel 1961 si registrano oltre 5000 abitanti, un aumento più che triplicato dopo 15 anni. L’Eco di Bergamo monitora e documenta la situazione cittadina; nel marzo del 1963 scrive infatti: «Se ci si guarda attorno, mentre dalla città si va verso Longuelo, si notano case e case, grandi e piccole, di tutti gli stili e di tutte le fogge, con la caratteristica comune di essere nuove. I primi arrivi, in questo processo di ingrossamento, si ebbero quando apparvero ormai ultimati i due nuclei più notevoli di Longuelo nuova: quelli rappresentati dagli edifici dell’IACP (Istituto Autonomo Case Popolari) e dall’INA Casa. L’uno e l’altro si collocarono accanto alle vecchie case,ingrossando la panoramica del quartiere, ma anche fungendo come enormi catalizzatori. Attorno ad essi, vicino e lontano, le case sono via via spuntate come funghi. Le hanno costruite un po’ tutti. Enti e privati. Parve che la zona fosse stata scoperta tutt’a un tratto nella sua bellezza e tranquillità. Il legittimo desiderio di venire ad abitare in questa nuova conca verde parve epidermico. Gli arrivi così si succedettero e si succedono ancora. Longuelo si è esteso e continua ad estendersi».
In questo contesto si inserisce il progetto di Pizzigoni, nel rispetto di quel clima urbanistico degli anni sessanta dove, accanto alla crescita economica ed urbana delle maggiori realtà italiane, alcuni intellettuali italiani (e Pizzigoni ne è uno) formulano dei modelli interpretativi nuovi per il disegno urbano e architettonico delle città esistenti. In un suo saggio del marzo 1965 su Bergamo e il disegno urbano ragiona su cosa c’è da fare nei nuovi quartieri per evitare la creazione di quartieri-dormitorio e dare vitalità ai quartieri neonati con un progetto delle opere infrastrutturali e dei servizi che non sia la mera applicazione di formule e numeri per rispettare gli indici di densità previsti dai Piani. Pizzigoni afferma che l’exprit de geometrie di Cartesio ha bisogno dell’exprit de finesse di Pascal.
La tenda in cemento armato con la sua architettura contorta e, per alcuni, controversa, richiama l’attenzione dei passanti, credenti e non, si pone come monumento del suo tempo e la sua nodosità esterna agita gli animi. Nei diversi dibattiti, all’accusa di bizzarria, l’architetto esprime il suo parere sostenendo il suo linguaggio progettuale quale espressione della tecnologia avanzata dei tempi e da cui non si può prescindere.
Non è un caso che negli stessi anni, l’architetto Giovanni Michelucci, sulla nascente autostrada del Sole, realizzava, tra il 1960 e il 1964, la sua tenda per i viandanti. La chiesa di San Giovanni Battista o “dell’Au- tostrada”, dal linguaggio espressionista, segue la tradizione cristiana nella misura in cui il termine tradizione non è imitazione del passato «ma tiene conto della particolare situazione spirituale degli uomini nel tempo in cui essa viene costruita». Il concetto di costante corrispondenza al tempo, sostenuto dallo stesso Michelucci in un dibattito sull’architettura sacra, concorda con quanto Papa Pio XII scriveva nell’enciclica Mediator Dei: «Non si devono disprezzare e ripudiare genericamente e per partito preso le forme ed immagini recenti, più adatte ai nuovi materiali con quali esse vengono oggi confezionate: ma […] tenendo conto delle esigenze della comunità cristiana è assolutamente necessario dar libero campo anche all’arte moderna, se serve con la dovuta riverenza e il dovuto onore, ai sacri edifici ed ai riti sacri; in modo che anch’essa possa unire la sua voce al mirabile cantico di gloria che geni hanno cantato nei secoli passati alla fede cattolica».
Il ricorso alle nuove tecnologie ed in particolare l’uso della prefabbricazione caratterizza l’architettura di chiese fin dalla ricostruzione post-bellica al Concilio Vaticano II e nei decenni a venire. Bisogna tener presente che l’edificio cristiano muta la sua identità per le nuove implicazioni sociali derivanti dal fenomeno dell’immigrazione massiva. E’ proprio a partire dagli anni ‘50 che, terminata la ricostruzione vera e propria delle chiese crollate durante il conflitto mondiale, si registra la necessità di edificare, molto più che in passato, nuovi luoghi di culto e di aggregazione pastorale nei vasti quartieri di recenti edificazione. Grazie ad un provvedimento statale, a partire dal 1952, un fil rouge collega tutti i complessi parrocchiali realizzati, per la nascita di una legislazione in materia di edifici di culto di cui si è avvalsa la gran parte delle diocesi italiane proprio all’indomani del secondo conflitto mondiale: la legge n. 2522, poi integrata e sostituita nel 1962 con la legge n.168. Tali leggi per il concorso dello Stato nella costruzione di nuove chiese furono emanate per interesse di monsignor Giovanni Costantini, Presidente della PCCASI (Pontificia Commissione Centrale per l’arte sacra in Italia) istituita nel 1924 ed attiva fino al 1990. Solo nel 1955 le richieste delle diocesi italiane ammontano a 2058 chiese e 4584 tra case e uffici parrocchiali.
Anche la parrocchia di Longuelo, insieme ad altre circa 20 chiese parrocchiali del territorio della diocesi di Bergamo, usufruisce del finanziamento statale tra il 1950 e 1970. La chiesa della Beata Vergine Immacolata è un modello in cui è possibile riassumere tutte le problematiche di quegli anni. Dal punto di vista urbanistico, la sua centralità rispetto al quartiere compare già “seppellita”, nonostante i suoi 18 metri d’altezza, dall’edilizia residenziale che avanza nel tentativo di recuperare ogni metro cubo possibile.
A Longuelo, il connubio tra scienza ed arte è generato dal rispetto delle geometrie studiate e dallo spirito umano che crea una cosa bella da fruire. «L’architetto, come il cardinal Lercaro ricorda in un suo intervento nel 1957, deve ambientare la chiesa nel quartiere ma non può confonderla con la casa degli uomini, perché è la casa di Dio; deve costruirla tra le case, ma deve anche separarla per sottrarre il singolo e la comunità dal profano: “santo” vuol dire “separato”». Il progettista sembra aver fatto ciò: distanziato dal manto residenziale l’edificio di culto facendo ritrovare all’interno la casa della comunità che per anni aveva atteso la sua costruzione confidando nel cemento armato al pari delle pietre nelle cattedrali romaniche. La Chiesa instaura un colloquio con la città attraverso l’edificio-chiesa e questo durerà fino a quando sarà in uso entrando nella vita della comunità nonostante le sue forme architettoniche. L’inserimento di ogni chiesa ha sempre destato curiosità, nel chiedersi come un progetto umano possa incarnare un progetto divino. Eppure, il tempo ha dimostrato che ogni casa di Dio si costruisce grazie alla partecipazione attiva di una comunità riunita e che solo ciò può rivelare la presenza attiva di Cristo.
La tenda che si propone di accogliere tutti gli uomini di Dio crea nel suo interno un luogo accogliente che, seppur progettato con un assetto pre-conciliare, si apre alle nuove esigenze liturgiche. La sobria unità stilistica, a tratti troppo rigorosa della freddezza del cemento armato, è accogliente come richiesto ad ogni umile casa di Dio. Dal groviglio esterno, fatto di tiranti e puntoni, si accede alla tenda: non un’unica superficie liscia ma una sovrapposizione di lembi che creano antri, spiragli di luce. Lo stesso grigiore interno magistralmente illuminato fa convergere lo sguardo verso il fondo dove alloggia un bassorilievo della Madonna Immacolata e che col suo manto sembra racchiudere in un abbraccio ogni singolo viandante colpito dal bianco candore apparentemente in netto contrasto con l’ambiente.