Bussa e ti sarà aperto. Nella casa generalizia delle suore di Madre Teresa a Roma succede davvero

Non era neppure previsto che mi fermassi lì, alla casa delle suore missionarie della Carità, ossia delle sorelle di madre Teresa di Calcutta. Ero passata a vedere la chiesa di San Gregorio al Celio a Roma ed eccola lì, l’entrata. Un passaggio per la precisione, un paio di scalini, un grande giardino: seguendo il percorso a destra ecco un portone di legno. Se non sbaglio non era ora di visite, ma poco dopo avrei dovuto prendere il treno per tornare a Bergamo. Non lo feci apposta a scoprire la casa generalizia. Capitò.

“Vorrà dire qualcosa”, pensai. Allora: “dai, si bussa, al massimo nessuno aprirà”. E me lo ricordo ancora, sono passati due anni, eppure è come se fossi lì a suonare il campanello con un po’ di timore per la paura di disturbare. Sarà stata l’ora di pranzo più o meno, ricordo che suonai il campanello un po’ come un bambino che fa gli scherzi al citofono: iniziai a contare “se arrivo fino a 10 e non mi apre nessuno, me ne vado”. E invece mi aprì una suora giovane, vestita di bianco con i bordi blu, che mi rispose a bassa voce. Le chiesi, dispiacendomi per il disturbo, se potessi entrare solo un momento a vedere la stanza di madre Teresa e dire una preghiera. Ricordo il suo sorriso, la voce lieve e la porta spalancarsi. Fu come entrare in un’altra città, un altro paese. Bianco, luminoso, pulito, porte aperte. Qualche immagine sacra. Camminai lungo un “sentiero” coperto da una tettoria quasi trasparente, forse di plastica, appena sollevata, che divideva la struttura in due parti fatte da varie stanze, a cui si accedeva dopo due piccoli gradini. A destra, ricordo che vidi una sala, mi era sembrata un’aula delle scuole elementari, con le sedie marroni e un tavolo con l’asse verde e le piastrelle rosse a terra, e un’altra ancora dove tante suore stavano pregando. Sulla sinistra, la stanza di madre Teresa. Quella suora dal volto così dolce mi lasciò lì e mi fece capire che il mio “momento”, sarebbe potuto durare di più, quanto mi fosse necessario. Entrai nella stanza quasi con il timore di svegliare qualcuno. Era piccola e essenziale. Alcune croci appese o appoggiate su dei ripiani, una scrivania bassa in legno con il piano in vetro, uno sgabello a fare da sedia, una credenza (ma forse è stata aggiunta in seguito, con all’interno alcuni oggetti di Madre Teresa o materiali della congregazione), un armadio piccolo e il letto, piccolo anche quello. Un asse di legno con un materasso basso avvolto in una coperta a scacchi bianchi e blu. Sopra, sdraiato, un crocefisso, grande. Bastava essere entrati ed era tutto lì lo spazio, tutte le cose, a portata di un solo passo. Secondo voi, si può vedere la persona che ha abitato, ha vissuto uno spazio? Perché a me era sembrato di vederla, Madre Teresa. Minuta e con una grande fede. L’avevo immaginata mentre scriveva e poi mentre pregava, in ginocchio. E lì, pregare, è l’atteggiamento che nasce spontaneo. Dall’altra parte del corridoio, poi, sentii le preghiere delle suore. Non ricordo in che lingua le recitassero, ma sicuramente non in italiano. Iniziai a pregare, come era mio proposito, ma con un desiderio ancora più forte, lì ferma sulla porta, ma con lo sguardo che si muoveva ancora per gli angoli della stanza. Era come se volessi immortalare il più possibile quello che stavo vedendo e ciò che stavo provando. E immaginando di essere di fronte a Madre Teresa, ricordo che la mia preghiera diventò un dialogo con lei. Vi è mai capitato? E’ stato bello e mi sentii bene, ricca di bellezza nel cuore e di speranza nell’animo. Feci un passo indietro senza dare le spalle alla stanza e come se salutassi Madre Teresa sorrisi. Sorrisi anche alla suora che mi aveva accolto. Raggiunsi il portone: un ultimo sguardo di quel mondo e tornai a Roma, sulla strada che mi avrebbe portato in stazione.