La parabola del figliol prodigo: l’esuberanza dell’amore paterno e la nostra difficoltà a capirlo

Immagine: Rembrandt, Il figliol prodigo (particolare)

In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: “Costui accoglie i peccatori e mangia con loro” (vedi Vangelo di Luca 15, 1-32. Per leggere i testi liturgici di domenica 11 settembre,  ventiquattresima del Tempo Ordinario “C”, clicca qui).

La mirabile, paradossale parabola del Figliol Prodigo o, meglio, del Padre misericordioso, la ritroviamo qui, in questa fase dell’anno liturgico: sono passate le grandi feste, siamo nel periodo che porta verso la conclusione dell’anno in corso e poi, con la fine del mese di novembre, l’inizio del nuovo anno liturgico. Il fatto che un passaggio così straordinario del Vangelo ci venga riproposto non va visto solo come una coincidenza liturgica, ma come un invito a non considerare mai “compreso” del tutto il Vangelo. La  paternità di Dio supera immensamente le nostre attese e quindi va sempre continuamente raccontata e contemplata.

LE SORPRESE DEL RACCONTO

Dobbiamo allora richiamare alcuni elementi per tornare a gustare la parabola, per risentirla col cuore.

Il padre. Siamo in una famiglia benestante. Il padrone di casa possiede terreni e in casa lavorano alcuni servi. Il padre è maturo o anziano, perché i figli sono grandi. È probabile che, essendo avanzato negli anni e ricco, la figura del padre goda di una certo prestigio anche all’interno del villaggio.

Il figlio minore. L’avventura del figlio è soprattutto la perdita di tutto, soprattutto la perdita di se stesso, della propria identità. Spende tutto, cade nella miseria, diventa dipendente di un datore di lavoro straniero (fa infatti il custode di maiali, animali immondi, che gli ebrei non allevano) e deve adattarsi a un mestiere abbietto: pascola i porci e, soprattutto, deve mangiare con essi, deve cioè fare quel gesto di condivisione che è il pranzo con degli animali che invece dovrebbero essere accuratamente evitati.

Il ritorno. Il ritorno è soprattutto la restituzione al figlio della dignità di figlio: il vestito lungo (il termine greco stolè); l’anello, probabilmente con il sigillo, segno dell’autorità riacquistata; i sandali che erano usati dall’uomo libero, mentre lo schiavo camminava scalzo. Il vitello era stato fatto ingrassare in attesa di una grande occasione. E questa è arrivata: il figlio è tornato a casa. Il figlio non era più figlio – aveva mangiato con i porci – adesso viene pienamente reintegrato nella sua dignità perduta.

La festa. Ciò che scandalizza il figlio maggiore è soprattutto la festa, cioè l’aspetto “vistoso” del perdono, il fatto che pubblicamente Gesù che è buono si mischia con i cattivi. Era il problema dei farisei (vedi inizio del brano).

LE NOSTRE DIFFICOLTÀ A CAPIRLO

Spesso pensiamo Dio come padre e ci immaginiamo che questo ci permette di fare quello che vogliamo perché un padre perdona tutto. Ma un padre che ama nel modo descritto dalla parabola diventa un padre esigentissimo. Per arrivare, però, a capire un padre siffatto dobbiamo sapere di averne bisogno. In altre parole, bisogna riconoscerci peccatori. Forse, allora, se non riusciamo a capire il Padre è perché non riusciamo a sentirci peccatori.

Ma non riusciamo a capire il padre anche perché fatichiamo più in generale a sentirci figli, cioè gente che ha ricevuto tutto. E forse la crisi della figura del padre di cui tutti parlano spiega anche la difficoltà a capire Dio come padre. O Dio non è più padre o il padre che dovrebbe stare nei cieli non è più Dio.

Dobbiamo però tornare a rendere vistoso ed esuberante il padre e il suo amore per noi… È necessario tornare a far festa. La festa è necessaria al Padre per accoglierci ed è necessaria a noi per capire il Padre. Per questo la Chiesa insiste: si deve “fare festa” la domenica, ci si deve trovare, si deve pregare, si deve fare eucarestia. Perché siamo figli e perché il Dio che è nei cieli è Padre.