Albert Schweitzer e il rispetto per la vita

Foto: Albert Schweitzer (1875-1965)

LA BELLA ALSAZIA

Mi piace andare in Alsazia. Una regione facilmente raggiungibile, a lungo contesa da francesi e tedeschi, disseminata di cimiteri con morti dell’una e dell’altra parte. Una terra che unisce il rigore germanico all’armonia francese, con villaggi medievali da cartolina separati da distese di vigneti curatissimi dove si coltivano quasi esclusivamente uve a bacca bianca con le quali si producono vini tra i più famosi al mondo.

SCHWEITZER, “IL PIÙ GRANDE ESSERE UMANO DEL XX SECOLO”

Ogni volta che salgo, oltre all’inevitabile sosta all’Unterlinden di Colmar per contemplare il magnifico retable di Matthias Grunewald, mi fermo nel piccolo villaggio di Kaysersberg, dove il 14 gennaio del 1875 nacque, figlio di un pastore luterano, Albert Schweitzer. Un piccolo museo, posto accanto alla casa natale, fa memoria di una vicenda che, probabilmente, oggi dice poco o niente ai più. Per Albert Einstein invece è stato “il più grande essere umano del XX secolo”. Un uomo dal multiforme ingegno: filosofo, teologo, medico (le sue tre lauree) e uno straordinario musicista, ma anche muratore, carpentiere, architetto, costruttore di barche, dentista, idraulico, meccanico, farmacista, giardiniere, zoologo, veterinario. Un uomo universale nel senso in cui lo furono pochi altri. Nel 1952 gli venne assegnato il Nobel per la pace ma i suoi interessi furono  tanti. Fu il più grande organista del suo tempo (sono ancora in commercio le registrazioni dei suoi concerti, in particolare di Bach) e la massima autorità al mondo nella costruzione di organi.

“SAN FRANCESCO LUTERANO”

Rispetto per la vita” è il cuore del pensiero e della vita di questo straordinario “san Francesco luterano”. Così l’ha definito recentemente il pastore Paolo Ricca sul Corriere della Sera: “Pur avendo davanti a sé una brillante carriera universitaria (era un teologo di rango), vi rinunciò e nel 1913 parti per l’Africa equatoriale (di allora! Molto diversa da quella di oggi! È passato più di un secolo) e fondò un ospedale a Lambaréné, nel Gabon, dove trascorse tutta la vita curando gli africani. Perciò fu chiamato «medico della giungla». In realtà fu e potrebbe ancora essere «medico della coscienza europea», per guarirla da una sua antica, oscura e temibile malattia mortale: la malattia del colonialismo, della violenza e della guerra, a cominciare dalla guerra agli animali, e insegnarle appunto il «rispetto per la vita» degli altri.”

John Gunther, il più famoso giornalista e inviato statunitense della prima metà del secolo scorso, chiese nel 1953 a Schweitzer le ragioni di quelle scelte. Perché l’Africa? Perché era rimasto sconvolto dalla statua di un nero in catene alla base di un monumento di Bartholdi, l’autore della statua della Libertà. Perché come medico? Perché era stanco delle parole e voleva passare ai fatti. Perché Lambaréné? Perché era un luogo inaccessibile e pericoloso e non c’era un solo medico in tutta la zona. Avrebbe dovuto aggiungere, le Grand Docteur, che la sua impresa era la sua risposta all’appello di Cristo («Chi vorrà salvare la sua vita la perderà, colui che avrà perduto la vita la troverà...») e di dare, con l’amore, un senso all’esistenza.

LA VITA, UN MISTERO CHE CI TRASCENDE

Rispetto per la vita dunque. Ricorda Ricca nell’articolo citato che l’espressione originale, in tedesco, è ancora più forte:  “Ehrfurcht vor dem Leben” , letteralmente: “timore sacro (o reverenziale) davanti alla vita”, che è qualcosa di diverso e di più del semplice “rispetto”  (che comunque è già molto). L’idea è che davanti alla vita ti devi fermare, non la puoi violare, non le puoi mettere le mani addosso, non puoi disporne a tuo piacimento, non ti appartiene, è qualcosa di infinitamente più grande di te, un mistero che ti trascende, di cui ignori il significato e il valore. Come scriverà in un suo libro: “Un uomo è morale soltanto quando considera la vita sacra come tale, quella delle piante e degli animali altrettanto di quella dei suoi simili”.

Passando in rassegna tutte le etiche del passato, Schweitzer trovò che erano tutte in qualche modo limitate, o perché troppo lontane e astratte dalla realtà o perché relativistiche, mentre per lui un’etica, per essere tale, doveva essere assoluta: ciò che a tutte mancava era un fondamento vero e indiscutibile. La soluzione del suo problema  la ebbe nel 1915 durante un viaggio intrapreso lungo il fiume dell’ Ogoouè, per andare a curare dei malati: “La sera del terzo giorno, al tramonto, proprio mentre passavamo in mezzo a un branco di ippopotami, mi balzò d’improvviso in mente, senza che me l’aspettassi, l’espressione ‘rispetto per la vita’. Avevo rintracciato l’idea in cui erano contenute insieme l’affermazione della vita e l’etica”. Elaborò a partire da questo momento un’etica che non si limitava al rapporto dell’uomo con i suoi simili, ma che si rivolgeva a ogni forma di vitaun’etica completa perché totalmente integrata e armonizzata in un rapporto spirituale con l’universo.

Quello di Schweitzer fu un impegno durato novant’anni (muore a Lambarenè il 4 settembre 1965) continuamente intrecciato tra la cura alle persone concrete (il suo ospedale ancora oggi assiste più di cinquantamila pazienti l’anno) e l’impegno pubblico contro le guerre e la prolificazione nucleare. Perché “rispetto per la vita” è responsabilità di fronte all’uomo e al tempo presente. Non c’è uno senza l’altro.  Anche di questo, ogni volta che mi fermo a Kaysersberg, sono grato a le Grand Docteur.