La storia di Davide, in partenza per Viloco, Bolivia: “Farsi prossimo e prendersi cura dà senso alla nostra vita”

Sovente nella vita capita di trovarsi di fronte a domande che spiazzano, che lasciano interdetti per la loro forza e immediatezza. Non sono domande che necessitano di una risposta tempestiva (talvolta non necessitano affatto di una risposta) ma che richiedono tempo di discernimento, tempo per lasciarle maturare nel cuore in attesa del momento più propizio per coglierle – “abitare” le domande come si dice. 
Ricordo quando, una paio di anni fa, sentii quella domanda ed ebbi la chiara sensazione che stava suonando in modo diverso rispetto alle volte precedenti. “E chi è il mio prossimo?” chiedeva provocatoriamente un dottore della legge nel vangelo di Luca. Sentii che quella domanda era rivolta anche a me: Davide, chi è il tuo prossimo? Per dirlo in modo più laico: chi è l’Altro-da-me? Come in decine di altre circostanze non avevo la risposta e nemmeno mi sono preoccupato di cercarla. Ho lasciato in sospeso la questione fino a quando questa non si è fatta più frequente e incalzante. Fino a quando non ho sentito il serio bisogno di andare alla ricerca di risposte o, ancora meglio, di nuove domande. 
Sono Davide Cavalleri, 24 anni, bergamasco della parrocchia di Longuelo. Fino ad oggi studente (laureato in Lettere all’Università di Bergamo) e, saltuariamente, corrispondente per qualche testata locale. Dal prossimo 24 ottobre missionario laico fidei donum per 2 anni in terra boliviana a Viloco, un villaggio a 4300 metri di altitudine ai piedi della maestosa montagna andina Illimani.

Perché parto?

«La strada che si percorre è importante, poiché ogni passo ci avvicina all’incontro con l’altro. È per questo che ci siamo messi in viaggio» scrisse Ryszard Kapuściński, uno dei più grandi reporter europei del secolo scorso. Sono profondamente convinto – una delle poche convinzioni che mi permetto di avere – che avvicinarsi all’Altro, conoscerne gli usi, la lingua, la fede, sia prima di tutto una questione di umanità. Di più: credo che farsi prossimi e prendersi cura sia il senso decisivo del nostro stare al mondo come uomini e donne. La ragione che ci chiama ad un continuo rinnovamento, ad un cambiamento del punto di vista. L’andare-verso e ancor di più lo stare-con sono le cifre fondanti della vita comunitaria e, a ben pensare, sono due degli elementi centrali del racconto evangelico: Gesù è un forestiero, è un viaggiatore; và e manda i suoi discepoli in giro per la Galilea (prima) e per il mondo (poi) a “diffondere l’annuncio” e dunque a farsi prossimi. Allo stesso tempo l’uomo di Nazareth ha bisogno di stare in mezzo alla gente, di sentire il contatto e di toccare con mano le miserie degli uomini ma, soprattutto, ha bisogno di ascoltare le parole inquiete e vacillanti della loro fede. È pellegrino e dunque anche lui ha bisogno di essere accolto, di essere ospitato. Ha bisogno del continuo confronto con il prossimo perché solo attraverso lo sguardo e le parole di chi gli sta intorno il suo essere figlio mandato da Dio trova piena realizzazione (“La gente chi dice che io sia?”).
Una società che non viaggia, che non si interessa del mondo che gli sta intorno e che non è in grado di ascoltare è una società grigia, spenta, che non ha più nulla da dare né da ricevere. È autoreferenziale e monotona. Ecco perché Papa Francesco predica con forza una chiesa inquieta e in uscita, capace di rinnovarsi e capace di ascoltare: una chiesa missionaria. Eccoli dunque i verbi chiave del messaggio evangelico: andare, ascoltare, stare. Spendere la propria vita con l’altro e per l’altro in quanto fratello e meritevole di attenzione. Credo che la vita non sia fatta per essere disinnescata con l’intento di mantenere ordine e apparente serenità, rifugiandoci nelle certezze del quotidiano; va piuttosto fatta esplodere carica di gioia e di curiosità. “Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà” (Mt 16, 25). Dove per “perderla” non si intende sprecarla impunemente vivendo in modo dissoluto; bensì viverla appieno con amore e apertura verso il prossimo. Parafrasando Erri De Luca ne “Il peso della farfalla”: la vita va restituita sgualcita, sporca, da buttare. E dove si trovano le vite più misere, sporche e disastrate se non nelle periferie del mondo? Quei luoghi e quelle genti dimenticate da tutti. Non da Dio che ha mandato il suo figlio precisamente in una delle periferie più estreme del mondo, a sporcarsi le mani a contatto con gli ultimi, coi poveri e gli ammalati, perché nessuno potesse dire: “la mia vita non vale la pena di essere vissuta”. E allora si capisce come quella che Francesco definisce “l’opzione preferenziale per i poveri” non sia solo spiccio proselitismo, ma sia altresì l’unica strada percorribile. Bisogna guardare là dove nessuno guarda, ascoltare quelli che nessuno ascolta e non far finta che quelle milioni di croci non siano un problema nostro. Lo sono eccome e lo sono ora: in Matteo 5 le beatitudini vengono presentate tutte al futuro – “beati gli afflitti, perché saranno consolati […] beati i miti, perché erediteranno la Terra”. Solo due beatitudini sono poste al presente: beati i poveri in spirito e beati i perseguitati, perché di essi è il regno dei cieli. Il problema è impellente, non può essere rimandato. Bisogna stare con i poveri e i perseguitati sì, ma non per misericordia o carità becera o per sentirci in pace con noi stessi. Bisogna stare con loro perché è tra di loro che si respira la vera umanità e che il messaggio evangelico trova piena realizzazione. Perché hanno da offrici molto: l’esempio della loro vita come pegno di un mondo che ancora genera oppressori e oppressi. Stare con loro perché nessuno è così ricco da non aver nulla da ricevere, nessuno è così povero da non aver nulla da dare.
Partirò per Viloco dunque, un posto tanto sperduto quanto romantico e magico; a contatto con gli ultimi, gli oppressi; a contatto con Dio. Tra le tante cose che mi vengono dette in questi giorni di imminente partenza la più frequente è: “Certo che hai proprio un bel coraggio ad andare fin lassù!”. Ammetto che questa frase mi lascia sempre un po’ contrariato: non vedo il coraggio come quel sentimento narcisistico di chi non ha paura e butta la sua vita con incuranza; credo piuttosto che sia qualcosa che si trasmette per contagio, quella spinta che matura proporzionalmente alla fiducia che si ha nel prossimo e che il prossimo ci infonde. Tanto più cresce la prossimità quanto più aumenta il nostro coraggio. Nei momenti di difficoltà i 12 trovano una rinnovata fede dalle parole e dal vedere che il Cristo è con loro (“Coraggio, sono io. Non abbiate paura!” Mc 6, 50).
«Il pellegrino, il pellegrinaggio e il cammino: nient’altro che me verso me stesso» disse un vecchio Sufi persiano. Mi sembra che in qualsiasi esperienza della vita, in qualsiasi viaggio, su qualsiasi strada, l’unica cosa che un viaggiatore può portare con sé è esattamente sé stesso. Ognuno con il proprio vissuto, le proprie esperienze, con il proprio bagaglio di vita che, di per sé, è più che sufficiente per accompagnarci nel cammino di tutti i giorni. La vita e i momenti vissuti e quelli che ancora sono da vivere ci temprano, plasmano noi stessi. E allora non c’è nessun cammino già vissuto che non sia quello di continuare a camminare. Non c’è nessuna esperienza già fatta per la quale non valga la pena mettersi in gioco. E’ per questo che ho scelto di partire: per mettermi in gioco; per mettermi in cammino verso il prossimo e verso me stesso.

viloco