Un’economia da ripensare. Partendo dai poveri

DUE TIPI DI CRISI

Nei giorni scorsi Stefano Zamagni è stato ospite a Bergamo in una serata dove si è ragionato sui modi per uscire da questa crisi infinita. L’economista bolognese ha esordito dicendo che due sono i tipi di crisi sistemiche che è possibile identificare nella storia delle nostre società: dialettica l’una, entropica l’altra. Dialettica è la crisi che nasce da un grave conflitto di interessi che prende corpo entro una determinata società, la quale non riesce, per una ragione o l’altra, a comporre. Una crisi di questo genere contiene, al proprio interno, i germi o le forze del proprio superamento. Zamagni ha ricordato gli esempi storici e famosi di crisi dialettica come la rivoluzione americana, la rivoluzione francese e la rivoluzione d’ottobre in Russia nel 1917. Entropica, invece, è la crisi che origina da un serio conflitto di valori oppure da un conflitto d’identità. Essa tende a far collassare il sistema, per implosione, senza che dall’interno della crisi stessa possano derivare indicazioni circa la via d’uscita. Questo tipo di crisi si sviluppa ogniqualvolta la società perde il senso – cioè, letteralmente, la direzione – del proprio incedere. Anche di tale tipo di crisi la storia ci offre esempi notevoli: la caduta dell’impero romano; la transizione dal feudalesimo alla modernità; il crollo del muro di Berlino e il conseguente crollo dell’impero sovietico e altri ancora. Perché è importante tale distinzione? Perché sono diverse le strategie di uscita dai due tipi di crisi. Non si esce da una crisi entropica con meri aggiustamenti di natura tecnica o con provvedimenti solo legislativi e regolamentari – pure necessari – ma affrontando di petto la questione del senso.

CRESCONO LE DISUGUAGLIANZE 

Anche perché nel frattempo crescono a dismisura le disuguaglianze. Zamagni, autore di alcune leggi importanti del nostro Paese e consulente ascoltato di papa Benedetto prima e di papa Francesco ora, ha sostenuto che la disuguaglianza non è un destino e neppure una costante temporale o spaziale. Non è un destino, perché essa ha a che vedere con le regole del gioco economico, cioè con l’assetto istituzionale che un paese decide di darsi. Si pensi ad istituzioni economiche come il mercato del lavoro, il sistema bancario, il modello di welfare, il sistema fiscale. A seconda di come queste vengono disegnate, si hanno conseguenze diverse circa il modo in cui reddito e ricchezza si ripartiscono tra coloro che hanno concorso a produrli. Le disuguaglianze non sono neppure una costante temporale, perché vi sono fasi storiche in cui esse aumentano ed altre in cui diminuiscono; né sono una costante spaziale, perché vi sono paesi in cui l’indice di Gini – che misura il divario tra ricchi e poveri – è più alto che in altri. Ad esempio, in Italia, il coefficiente di Gini è pari 0,36 mentre quello dei paesi scandinavi è all’incirca 0,24 e quello dell’Argentina è 0,51. Il nostro Paese, pur destinando alla spesa sociale – la spesa per il welfare globalmente considerata – una percentuale del proprio PIL in linea con quella scandinava registra un livello di disuguaglianza sensibilmente maggiore. D’altro canto, pur spendendo tanto, in rapporto al PIL, per il welfare l’Italia ha un indice di Gini che è solamente di poco inferiore a quello degli USA (0,40). Quanto a dire che il nostro welfare non protegge i più vulnerabili, né facilita la mobilità sociale dei ceti poveri

UNA POVERTÀ CHE TOCCA TUTTI 

Tutto questo mi tornava alla mente mentre leggevo il Rapporto Caritas sulla povertà e l’esclusione sociale presentato nei giorni scorsi a Roma. Il quadro è drammatico e sarebbe ora che fosse chiaro a tutti: la povertà in Italia è esplosa e attraversa l’intera società. Dall’inizio della crisi ad oggi la povertà assoluta, ovvero la condizione di coloro che non hanno le risorse economiche necessarie per vivere in maniera minimamente accettabile, è aumentata da 1,8 milioni di persone povere nel 2007 (il 3,1% del totale) a 4,6 milioni del 2015 (il 7,6%). Negli anni scorsi, la povertà assoluta -spiega il Rapporto – ha confermato il suo radicamento in quei segmenti della popolazione in cui già in passato era più presente (il Sud, le famiglie con anziani, i nuclei con almeno 3 figli minori e quelli senza componenti occupati) ma è anche notevolmente cresciuta in altri, prima ritenuti meno vulnerabili: il centro-nord, le famiglie giovani, i nuclei con 1 o 2 figli minori e quelli con componenti occupati. Il risultato è che la presenza quantitativamente significativa dell’indigenza tocca oggi l’intera società italiana e non è più circoscritta solo ad alcune sue componenti.

PIÙ GIOVANI CHE VECCHI

Questo vuol dire un’altra cosa su cui bisogna ragionare con urgenza: il volto fragile dell’Italia, quello costituito dall’esercito dei poveri, è sostanzialmente mutato. Non sono più gli anziani, gli over 65, i pensionati, coloro che svettano in testa alle classifiche dell’incidenza della povertà assoluta, ma i giovani. Per la prima volta dal secondo dopoguerra i più poveri sono tra i giovani. È qui infatti uno degli elementi inediti della nuova povertà, che sovverte i canoni tradizionali dell’anziano povero. “La povertà – rilevano infatti i ricercatori Caritas – risulta inversamente proporzionale all’età e diminuisce all’aumentare di quest’ultima”. Una inversione di tendenza che fa riflettere perché va ad incidere nei pilastri di sempre: nelle famiglie i nonni erano certi che arrivati ad una certa età avrebbero potuto contare su figli e nipoti certi che l’ascensore sociale avrebbe funzionato. C’era il sogno di poter progredire. E invece gli anni della crisi economica, dal 2007 ad oggi, hanno prodotto un brutto smottamento nel tessuto sociale, sfilacciandolo laddove avrebbero dovuto albergare maggiori energie, certezze e sacche di redditività.

PIÙ ITALIANI CHE STRANIERI

Il Rapporto elabora dati Istat e di altre fonti istituzionali, ma anche i numeri raccolti di prima mano dalla rete dei 1.649 Centri di ascolto (Cda) Caritas disseminati in 173 diocesi, che nel 2015 hanno incontrato e censito 190.465 persone. È da qui che emerge il ‘sorpasso’ al Sud degli italiani sugli stranieri: se a livello nazionale infatti il peso degli stranieri è maggioritario (57,2 per cento), nel Mezzogiorno la percentuale di italiani che bussa alle Caritas è pari al 66,6 per cento. Altra novità rispetto al passato è la parità di genere raggiunta nella povertà (49,9 per cento gli uomini e 50,1 per cento le donne) a fronte di una lunga e consolidata prevalenza del genere femminile. L’età media di chi si rivolge ai Cda è 44 anni, prevalgono le persone coniugate, con licenza media inferiore, disoccupate o inoccupate, I bisogni più frequenti sono la povertà economica (76,9 per cento), il disagio occupazionale (57,2 per cento), ma anche i problemi abitativi (25 per cento) e familiari (13 per cento). Frequenti le situazioni in cui si cumulano due o più bisogni.

Se non vogliamo aumentare i risentimenti sociali cavalcati furiosamente da demagoghi Ministri della Paura cominciamo ad avviare una seria riflessione sul dovere etico di ricollocare la povertà e gli esclusi al centro del sistema economico, politico e sociale. O l’economia riesce a dare, prima di tutto, una risposta al grido di giustizia dei poveri o non è economia. Non vi pare?