Trump, l’Europa, il mondo. Primo bilancio. I grandi rischi

Nell’attesa che il tempo che scorre dissipi i fumi del fall-out dell’esplosione trumpista così che possiamo vedere più nitidamente la nuova skyline del mondo, si possono già segnare alcuni punti meno provvisori. L’utilità di questo esercizio è che inevitabilmente si parla anche di noi, perchè gli effetti delle scelte del popolo americano incidono profondamente su noi europei e italiani.

Nessuno, o quasi, ha protestato contro il sistema elettorale americano

Alla conclusione dei conteggi, i voti popolari hanno visto in vantaggio la Clinton di circa 1 milione e mezzo di voti. La struttura del sistema elettorale americano “deforma” inevitabilmente la rappresentanza, a fini di governabilità. Da nessuno degli sconfitti, tuttavia, è venuta la richiesta di cambiare il sistema maggioritario americano, in forza del quale chi conquista la maggioranza del voto popolare in uno dei 50 stati si prende tutti i delegati. Così, se il conteggio finale dei voti popolari in California attribuisce alla Clinton milioni di voti in più, quello dei delegati in molti piccoli stati dà la vittoria a Trump. Come a dire: la Clinton ha preso troppi voti in sovrappiù nella California di 40 milioni di abitanti, pochi voti in meno nel New Hampshire di 1 milione e 300 mila abitanti, ma zero delegati. Sistema ingiusto? Tutti i competitori, da sempre, accettano quel sistema come costitutivo della democrazia americana. Il sistema elettorale è sempre una costruzione artificiale condivisa. Le manifestazioni che hanno avuto luogo in qualche città americana, all’insegna del “Trump not my President”, sono pertanto soltanto fragile populismo di sinistra.

Non è Trump che ha vinto, è la Clinton che ha perso

I ceti più poveri, i precari, i disoccupati hanno dato la vittoria a Trump? La Clinton ha preso solo il voto dei ricchi? La tesi è improbabile: gli Usa hanno solo il 5% di disoccupati, livello ritenuto fisiologico, e per di più costoro raramente si iscrivono alle liste elettorali. E, fattualmente, la Clinton ha preso il voto di aree povere o in via di emarginazione. La riduzione alle motivazioni economico-sociali appare insufficiente. Non gli afro-americani, non i latinos, ma i bianchi hanno “tradito” la Clinton, per ragioni che toccano il fondo culturale e identitario delle persone. L’identità è un mix misterioso di tradizioni, paure, sapere del mondo, speranze e prospettive… è il nucleo nascosto, che sta dietro le scelte esistenziali private e pubbliche. Ciò che viene percepito come minaccia al nucleo identitario non è necessariamente “il nuovo”; può essere anche la mancanza del nuovo. Hanno agito, sul fondo, due tendenze: la paura e l’insicurezza di settori sociali medio-bassi e l’insoddisfazione di ceti che guardano al futuro; la paura della globalizzazione e la voglia di accettarla come sfida piena di opportunità. La Clinton è apparsa agli uni come incapace di garantirli e di proteggerli, agli altri come difesa corporativa di vecchie élites ripiegate su rendite di posizione. Simmetricamente opposta l’immagine di Trump, con due facce, come Giano, o concavo e convesso come il Berlusconi d’antan: capace di rassicurare coloro che si sentono minacciati dalla globalizzazione e coloro che le vanno incontro. Così, alla fine, secondo il New Statesman, non è Trump che ha vinto, è la Clinton che ha perso.

Isolazionismo verso Ovest, competizione verso Est. Il trumpismo all’osso buco di casa nostra

Tutto ciò ci riguarda? All’incrocio di quelle due motivazioni, tende a scricchiolare il vecchio asse euro-atlantico: per un verso è il tendenziale abbandono americano del teatro europeo e mediterraneo al suo incerto destino e declino, per l’altro è la spinta americana a Est, verso il Pacifico. Isolazionismo e nazionalismo verso Ovest, attenzione competitiva verso Est. E’ evidente che queste spinte contraddittorie ci toccano molto da vicino. L’Europa o diventa un partner forte politicamente e militarmente o sarà campo di scorrerie delle grandi potenze mondiali. Non implica solo le economie e i commerci: coinvolge le culture e la civilizzazione europea, la sua tavola dei valori. Non poteva mancare un utilizzo politico immediato qui da noi, una sorta di trumpismo all’osso buco. Nazionalismo e isolazionismo come gli USA? Difficilmente praticabile dagli Usa – perchè la loro economia è un’economia-mondo e perchè il loro debito pubblico è in mano ai cinesi – il nostro trumpismo di importazione suona come il ruggito del topo, se a tentarlo fossero gli Stati europei e, soprattutto, l’Italia. Sul versante della sinistra radicale, del trumpismo anti-global si fa un audace uso “di sinistra”. Nazionalismo e protezionismo proteggerebbero i poveri e gli ultimi. Vengono in mente altri tempi più tragici di convergenze tra destra e sinistra, quando molti militanti del socialismo italiano aderirono al fascismo e quando molti quadri del KPD (il partito comunista tedesco) si iscrissero al NSDAP (il partito nazional-socialista dei lavoratori tedeschi). Fortunatamente Trump non è Hitler e la nostra sinistra radicale non è nazista, ma il meccanismo socio-mentale è lo stesso di allora: il ritorno alla dimensione nazionale contro la globalizzazione, contro l’Europa. Sinistra radicale, grillismo, leghismo si danno la mano.

La post-verità. Solo ciò che è virale è vero ed è vero solo ciò che è virale

Insorge, sempre di nuovo, la domanda: con quali materiali l’individuo costruisce, nell’interazione con i propri simili, la propria collocazione nel mondo, di cui la scelta di voto politico è solo una spia, peraltro decisiva? Rispetto alle elezioni degli anni ’90, un ruolo decisivo lo esercitano ormai i nuovi media. Diversamente dai giornali e dalle TV, ti entrano in casa da ogni lato, qualcosa come la radiazione fossile, che viene da ogni angolo dell’universo. Da ogni lato, ma ad ogni momento, in tempo reale. In questo universo, è stato osservato, non conta più la verità dei fatti. O, per peggio dire, è solo un elemento del puzzle finale. Contano le interpretazioni. È la rivincita di Nietzsche sul vecchio Hegel: non è più vero che solo “il reale è razionale e che il razionale è reale”. Ora, secondo l’Oxford Dictionary, tra i testi più citati di questi giorni, è la Post-Truth la parola dell’anno: la post-verità. Come a dire: “solo ciò che è virale è vero ed è vero solo ciò che è virale”. “La Realtà”, che elaborata dai nostri miliardi di neuroni, diviene “la Verità” coincide con “la Viralità”.

Una “gnoseologia da sonnambuli” e le catastrofi all’orizzonte

Si tratta di una gnoseologia da sonnambuli. E fu così, secondo Christofer Clark, che classi dirigenti e popoli i popoli  avviarono verso la catastrofe della Prima guerra mondiale, quando il principio di realtà riguadagnò la scena, al prezzo di milioni di morti. Se tornano i nazionalismi, i conflitti sono destinati a tornare, endemici e feroci, incattivendo le nostre società benestanti, ma fragili e nervose.