Giornata della memoria: i lager e il filo spinato non sono soltanto ricordi. La lezione della Shoah vale anche oggi

Nel romanzo di W. G. Sebald “Austerlitz” (Adelphi) un professore di storia dell’architettura, studioso di palazzi dalle forme involontariamente visionarie, va a caccia delle sue origini, e scopre di essere arrivato a Londra durante la Seconda guerra mondiale, con uno di quei convogli di bambini che dall’Europa centrale partivano per l’Inghilterra, mentre i genitori venivano deportati nei campi di concentramento. Austerlitz cerca i suoi genitori e ogni tassello: un volto, un oggetto, una fotografia, gli riporta pezzi di un’identità remota che aveva seppellito inconsapevolmente dentro di sé.
Il film del regista ucraino Sergei Lonitsa, in anteprima il 27 gennaio all’Auditorium di Piazza Libertà (ore 21, ingresso libero), distribuito da Lab 80 film, ha lo stesso titolo, “Austerlitz”, ma dentro non c’è niente di questa storia, se non il rapporto (complesso) con la memoria della Shoah, con la ricerca e con il significato che essa assume per ognuno di noi.
Ogni anno milioni di persone visitano i campi di concentramento e Lonitsa si chiede: perché? Nel lungometraggio una telecamera fissa mostra i visitatori del campo di Sachsenhausen, a Nord di Berlino. Compiono azioni ordinarie, non particolarmente degne di nota, apparentemente neutre: camminano tra i viali delimitati dai dormitori, alcuni si scattano selfie nei locali dei forni crematori, altri consumano pasti veloci sul lastricato che separa la strada dalle fosse comuni.
Il regista non inserisce nel suo racconto visivo commenti espliciti o giudizi, lascia che ogni spettatore arrivi a una riflessione personale “per contrasto”: chi guarda viene infatti obbligato a specchiarsi, a indagare – come nel romanzo di Sebald, in fondo -, sulle proprie ragioni per ricordare. E il pensiero si allarga al “turismo di massa” nei campi di concentramento: perché la gente ci va, che cosa cerca? «L’idea di fare questo film – racconta il regista – mi è venuta perché visitando questi luoghi ho sentito subito una sensazione sgradevole nel mio essere lì. Sentivo come se la mia stessa presenza fosse eticamente discutibile e avrei voluto davvero capire, attraverso il volto delle persone, degli altri visitatori, come ciò che guardavano si riflettesse sul loro stato d’animo. Ma non nascondo di esserne rimasto, alla fine, abbastanza perplesso».
Il film non offre risposte, ma molti interrogativi interessanti, che investono il senso stesso della Giornata della Memoria: perché celebrarla? Non bastano le letture, i selfie, i souvenir, se poi lasciamo che le tragedie di oggi, seppure non paragonabili all’Olocausto, ci scivolino addosso. È un’occasione nata per creare consapevolezza, fare in modo che quegli orrori non si ripetano. Ma in questi giorni circola un paragone insistito, feroce: le mani protese dai treni e quelle che si affacciano dai barconi, ci chiediamo, sono davvero così diverse? Il pensiero distingue, ed è giusto, perché la storia di oggi è molto diversa da quella di settanta anni fa. Oggi ci sono persone che partono volontariamente verso mete di speranza e sogni di vita nuova. Ieri erano deportate con la forza. Oggi lasciano la patria spinte da guerre e carestie. Ieri erano catturate da una un’ideologia di annientamento mirato. Ma le immagini, la gente in fila sotto la neve, i muri e il filo spinato, quelli sono visivamente vicini. Non è così fuori luogo chi afferma, come lo scrittore ed ebraista Matteo Corradini, curatore della nuova edizione del «Diario» di Anne Frank (Rizzoli), che «Ai tempi di Anne c’erano persone considerate fuorilegge solo per il fatto di esistere da qualche parte. Ma lo stesso succede anche oggi». Sta a noi ragionare su cosa dobbiamo fare con i fili spinati di oggi, e perché. Anche la Giornata della Memoria serve: la storia non è solo passato, è un monito, un invito. Ci piace pensarla così.