Gli scritti di Angelo Giuseppe Roncalli nell’archivio digitale della Fondazione Papa Giovanni XXIII: c’è ancora molto da scoprire

Anche chi non fa di mestiere l’archivista o l’antiquario può percepire il fascino dei testi autografi di grandi autori e personaggi storici. Recentemente la Fondazione Papa Giovanni XXIII ha avviato – con il sostegno della Banca Popolare di Bergamo – un’opera di digitalizzazione e pubblicazione online del proprio archivio: mediante una semplice procedura di iscrizione nel sito www.fondazionepapagiovannixxiii.it, gli studiosi e più in generale tutte le persone interessate hanno già da ora la possibilità di consultare le scansioni di numerosi manoscritti o dattiloscritti di Angelo Giuseppe Roncalli (don Ezio Bolis, direttore della fondazione, ci ha fornito gentilmente le immagini di due inediti roncalliani del 1928 e del 1946: le pubblichiamo, a titolo di anticipazione, negli altri post di questo dossier).

«Un’attività finalizzata alla raccolta e alla pubblicazione degli scritti di Papa Giovanni – spiega don Bolis – era iniziata già durante il suo pontificato: in un appunto del 9 luglio 1961, egli raccontava di aver trascorso una domenica pomeriggio discutendo con il suo segretario personale Capovilla di come avrebbe dovuto essere condotta un’edizione di questo tipo. Di fatto, Papa Giovanni non era contrario a che le sue pagine di carattere autobiografico fossero pubblicate, purché questo avvenisse dopo la sua morte».

Dalla pubblicazione online degli scritti di Papa Giovanni potrebbero emergere elementi interessanti, da un punto di vista storico-scientifico?

«Io ritengo di sì. Per esempio, quando avremo ultimato la digitalizzazione della pagine del Giornale dell’anima di Roncalli – le sue raccolte di riflessioni a carattere spirituale -, la versione risulterà più ampia rispetto ad altre edizioni, come la prima, del 1964, curata da monsignor Loris Francesco Capovilla o quella di Alberto Melloni, del 1987. Tra i documenti che renderemo disponibili figureranno tra l’altro le annotazioni che l’allora giovane sacerdote Roncalli aveva redatto nel 1906, in occasione di un pellegrinaggio della diocesi di Bergamo in Terra Santa. Queste pagine testimoniano di un primo incontro di Roncalli con l’Oriente; in esse ricorrono anche dei giudizi abbastanza severi nei riguardi delle autorità turche e degli stessi cristiani ortodossi, che talvolta vengono ancora chiamati “scismatici”».

Negli anni successivi, prevarranno la simpatia e l’affetto nei riguardi dei «fratelli separati»?

«Ma appunto, le note del 1906 risultano importanti se le si prende come terminus a quo, come punto di partenza di una successiva evoluzione sul piano pastorale e dei rapporti ecumenici. Ancora riguardo alle novità connesse alla pubblicazione online del nostro archivio, un altro fatto di cui tener conto è una decisione assunta da Roncalli nel 1925, anno in cui diviene vescovo: da questo momento, egli distingue chiaramente tra le sue annotazioni di carattere più intimo e gli scritti di carattere pubblico, concernenti questioni pastorali o diplomatiche. Solo le considerazioni del primo tipo sono poi state incluse nelle differenti edizioni del Giornale dell’anima, mentre le altre sono confluite nelle Agende; in futuro, procedendo il lavoro di digitalizzazione, tutti gli scritti saranno egualmente visionabili nel nostro sito».

Vorrebbe presentare brevemente gli inediti di Roncalli che ci ha autorizzato a pubblicare sul Santalessandro?

«Si tratta di due lettere inedite, redatte da Roncalli in periodi diversi. La prima è datata al 26 aprile 1928 ed è indirizzata un “signor Dammacco”, probabilmente un commerciante che – come tanti altri italiani al tempo – aveva rapporti di affari in Bulgaria. Roncalli, che nel 1925 era appunto stato nominato “visitatore apostolico” in quel Paese, fa riferimento alle disastrose scosse di terremoto che avevano colpito la regione di Plovdiv, l’antica Filippopoli; racconta anche di essersi recato in quella zona per aiutare “del suo meglio” i superstiti. Da altre lettere, indirizzate ai familiari, apprendiamo che decise di dormire all’addiaccio, per un senso di solidarietà con coloro che erano rimasti senza casa. Sappiamo pure che egli si attivò con la Santa Sede per avere una discreta somma di denaro, che poi ripartì tra i terremotati, senza distinzioni tra i cattolici e i membri di altre confessioni, perlopiù ortodossi».

E riguardo alla seconda lettera?

«Questa fu indirizzata il 16 febbraio del 1946 a Giuseppe Saragat – futuro presidente della Repubblica -, che per un breve tempo rivestì il ruolo di ambasciatore italiano in Francia (nel giugno dello stesso anno fu eletto all’Assemblea Costituente, che poi presiedette). Roncalli era dal 1944 nunzio apostolico a Parigi: nella sua missiva, ringrazia per aver ricevuto un biglietto nell’anniversario della conciliazione tra lo Stato e la Chiesa e invita a pranzo (o a cena) Saragat e i collaboratori di quest’ultimo. Roncalli si scusa, anzi, per non aver formulato prima l’invito: spiega di essere stato “assai distratto dal passaggio di una decina di cardinali tra vecchi e nuovi” che egli aveva dovuto accogliere a Parigi. Costoro erano diretti a Roma, al primo concistoro indetto da Pio XII, dopo gli anni della guerra. Interessante è che questi cardinali avessero trovato opportuno incontrarsi con Roncalli – che all’epoca ancora cardinale non era -, quasi per potersi consultare con lui prima del vero e proprio concistoro».

Saragat era certamente persona tollerante e democratica; però, per quanto riguarda Roncalli, negli anni Quaranta del secolo scorso non era scontato che un vescovo intrattenesse rapporti così cordiali con un esponente di primo livello del movimento socialista.

«È vero. Il tono della lettera è comunque di grande affabilità, secondo uno stile che poi ritroveremo nel Roncalli Patriarca di Venezia e Papa. Nel testo vi sono anche degli accenti umoristici, per esempio quando egli scrive a Saragat che con l’invito a pranzo egli vorrebbe esprimergli la sua riconoscenza “in una forma tutta semplice e tutta italiana” o quando si scusa per non poter estendere l’invito alle signore mogli, “che il protocollo vaticano non ammette ai pranzi nelle Nunziature”».