I diritti calpestati. Il rapporto di Amnesty International

Una lettura “terapeutica”

La lettura del Rapporto di Amnesty International 2016/17 intitolato “La situazione dei diritti umani nel mondo” è altamente terapeutica per quanti di noi vedono soltanto la nostra piccola fetta di mondo, pigramente convinti che coincida con il mondo intero. È una terapia urticante di parresia. Nelle 487 pagine, il Rapporto presenta, nella prima parte, un riassunto per grandi aree del pianeta e poi passa ad analizzare la situazione dei diritti umani Paese per Paese. I diritti umani: nella Dichiarazione universale dei diritti del 1948 sono descritti in trenta articoli. Ma si possono sintetizzare in libertà di pensiero, di pratica religiosa, di movimento e, in primo luogo, nell’Habeas corpus – promulgato dal parlamento inglese il 27 maggio 1769 – e che oggi suona così nell’Art. 9: “Nessun individuo potrà essere arbitrariamente arrestato, detenuto, esiliato”.

Si definiscano universali per diritto naturale o per convenzione, i diritti appartengono all’essere umano come tale, sotto qualsiasi cielo. Dovunque si trovi, li porta con sé. Non privilegi, ma condizione essenziale della persona nel mondo. La Dichiarazione del 10 dicembre del 1948 è un fiore sbocciato da una Terra innaffiata copiosamente dal sangue di 70 milioni di persone – la popolazione dell’Italia e la Svizzera di oggi – civili in numero maggiore dei militari, nel corso della Seconda guerra mondiale. Lo squarcio che il Rapporto 2016/17 apre alla vista del pianeta continua, tuttavia, ad essere drammatico.

L’Africa e i suoi drammi

L’epicentro è l’Africa. Sono in corso guerre civili e tribali in Camerun, Mali, Niger, Nigeria, Repubblica Centro-africana, Sudan, Ciad, Sierra Leone, Namibia, Somalia, Libia… Esse producono milioni di profughi, spesso chiusi nei campi di rifugiati, in cui si ammassano centinaia di migliaia di persone in condizioni tragiche, o in cammino nel deserto subsahariano verso la terra promessa dell’Europa. L’esodo verso le rive del Mediterraneo è costellato di omicidi, stupri, torture. 4500 persone che hanno tentato di attraversarlo sono finite in fondo al mare.

E laddove esistano strutture statali relativamente solide, dal Kenya all’Angola, all’Etiopia all’Eritrea, la repressione sanguinaria delle manifestazioni delle opposizioni e dei militanti dei diritti umani – giornalisti, giudici, avvocati – produce centinaia di morti, migliaia di incarcerati e torturati. Le donne stuprate e i bambini, reclutati come soldati, pagano il prezzo più alto. A ciò si devono aggiungere i terroristi di Al Shabab in Somalia e di Boko Haram in Nigeria, che rapiscono e uccidono. In Malawi, si legge, è in corso una campagna persecutoria persino contro gli albini. Le mutilazioni genitali delle donne e le spose-bambine a 13 anni sono ancora la norma in molti Paesi. Per tutti gli assassinati e i torturati e oppressi non esiste giustizia. Presidenti e capi di governo che hanno promosso campagne di sterminio – in Sudan è stato fatto uso di armi chimiche nel Darfur – non sono stati incriminati o, comunque, non condannati dai Tribunali internazionali. D’altronde più di un Paese africano, tra cui lo stesso Sudafrica, tende a ritirarsi dalla Corte penale internazionale, che giudica i crimini contro l’umanità e i genocidi.

L’immigrazione

Mi sono soffermato sull’Africa, non solo perchè vi scorrono fiumi di sangue, ma perchè essa bussa alle nostre porte. Per quanto l’Italia si arrabatti generosamente, il fenomeno immigratorio non è governabile da un solo Paese. Quanto all’Europa, essa ha dimostrato scarsa volontà di farsi carico. La stessa fondamentale distinzione tra immigrato economico e rifugiato politico, prevista dalla legge, non è facilmente applicabile nella realtà. Sono le condizioni politiche generali che costringono la gente a fuggire e a cercare condizioni elementari di sopravvivenza, così che le due figure tendono spesso a coincidere. Le condizioni attuali dell’Africa non sono certo tutte imputabili al colonialismo di rapina, che si spartì l’Africa nella Conferenza di Berlino del 1884. Ma è certo che fino ad oggi le grandi potenze occidentali, cui si è aggiunta la Cina, non hanno mai cessato di mettere le mani sulle ricchezze enormi del continente, di vendere armi, di corrompere e comprare i governi. Il tutto sullo sfondo di società tribali pre-moderne, in cui i Tutsi ammazzano gli Hutu in Ruanda e i cristiani uccidono i mussulmani e viceversa, come nella Repubblica centrafricana…

Omicidi, pena di morte, torture…

Il Rapporto passa poi all’America latina, dove Messico, Guatemala, Venezuela, Salvador raggiungono i picchi degli omicidi, di repressioni violente ad opera di enti statali o para-statali e di squadroni della morte. E poi all’Asia e al Pacifico, al Medioriente. La catastrofe umanitaria di Aleppo sta solo a 2.500 km. da noi. Gli orrori delle torture, della sparizione delle persone, della pena di morte sono all’ordine del giorno: nel 2015 la Cina ha eseguito circa mille condanne, l’Iran circa 900, il Pakistan 300, l’Arabia Saudita intorno alle 100 esecuzioni  e gli Stati Uniti 30. In 23 Paesi sono stati compiuti crimini contro l’umanità, in 22 Paesi c’è l’ordine di sparare sui manifestanti, in 36 Paesi la violazione del diritto internazionale relativo agli immigrati.

In Occidente: l’odio trasformato in voti

Quanto a noi, mondo cristiano (?)-occidentale, il Rapporto denuncia lo strano scambio che viene proposto ai cittadini da parte di partiti, presidenti e capi di Stato: sicurezza contro diritti umani. Nell’ultimo anno si è affermato “un trend globale” di una politica sempre più divisa ed arrabbiata, che ha prodotto un “hate speech” di massa – discorsi e incitamenti all’odio – paura e sospetto. Trump in America e i trumpisti europei – da Geert Wilders a Salvini– hanno aperto la strada, trasformando l’odio in voti. In questa retorica tossica, appare evidente l’erosione della tavola di valori, che sta dietro i diritti. Scenario cupo, di tipo pre-bellico. Eppure, non è autoconsolazione retorica far notare che dalla battaglia spesso eroica e sconfitta per la difesa dei diritti umani, stiano emergendo le molecole di una società civile mondiale, che non cede alla violenza fisica e verbale. Il punto di resistenza sono sempre le persone, la cui coscienza e libertà sono incomprimibili. Una società civile che nasce dalla consapevolezza di essere “famiglia umana”. E resta certamente paradossale che la vecchia Europa, culla di sangue e di diritti, stia ripiegata su se stessa, sotto una campana, a cui i rumori del mondo giungono confusi e attutiti.  Impotente di fronte all’Africa e al Medioriente. Ma, se ciò accade, è perchè, prima della politica, hanno chiuso gli occhi i cittadini italiani ed europei. Fino a quando ci tapperemo le orecchie per non sentire il grido della “collera dei poveri”? L’ammonimento di Paolo VI di cinquant’anni fa – esattamente il 26 marzo 1967 nella Populorum progressio – continua a risuonare profetico e realistico. Il laico Samuel Huntington ricordava negli anni ’90: “L’Occidente non ha conquistato il mondo con la superiorità delle sue idee, dei suoi valori o della sua religione, ma attraverso la sua superiorità nell’uso della violenza organizzata – il potere militare. Gli occidentali lo dimenticano spesso, i non occidentali mai”. Il “vallum” europeo che si pretende di opporre a Sud e a Est è solo una fragile ragnatela. A quando una nuova Conferenza europea di Berlino, che vada in aiuto urgente dell’Africa? A quando una nuova Conferenza europea sul Medioriente, a cento anni dalla spartizione feroce dell’accordo Sykes-Picot?