La morte di Fabo. I fatti e qualche rapida riflessione

Foto: il deejay Fabo con la compagna Valeria

Una strana rapidità

Fabo, il deejay sfortunato, rimasto cieco e paraplegico dopo un incidente stradale, è morto. Si era appena fatto a tempo, il 26 febbraio, ad assimilare la notizia, già in sé drammatica, del ricovero in una clinica svizzera, in vista dei una possibile eutanasia. E già il 27, di mattina, è arrivata l’altra notizia: Fabo è morto. Qualcuno parla di eutanasia, qualcuno di suicidio assistito.

Già la rapidità dei due eventi impressiona. Forse perché la notizia del ricovero è arrivata in ritardo. Ma forse semplicemente perché, in quella situazione, in quella clinica, con quella legge, morire non è un problema. Basta volerlo.

Naturalmente, alla notizia sono seguiti i commenti, i molti commenti. Il primo è una specie di commento post mortem dello stesso Fabo che accusa quello che lui chiama “il mio Stato” di averlo condannato a morire all’estero. E, dietro alle parole di Fabo, si sono lette e sentite molte prese di posizione a favore della libertà di scelta.

Con chi vivere e con chi morire

Sull’evento, dunque, molte parole e molte notizie. Ma, insieme alle molte parole che ci sono, si deve notare l’assenza di alcune parole e di alcune notizie che ci dovrebbero essere e che invece non ci sono. Una soprattutto. I giornali hanno parlato di Valeria, la compagna, che è rimasta coraggiosamente vicino a Fabo, anche dopo l’incidente.

Ma non hanno parlato di altre persone. Di solito, quando in una famiglia o in cerchio di conoscenze, succede una tragedia, molti, alcuni almeno, si lasciano commuovere e danno una mano. Nel caso di Fabo si è parlato di lui, di Valeria e poi di Marco Coppato, della Associazione Luca Coscioni, che ha facilitato gli ultimi contatti, il ricovero, l’eutanasia. Un universo spaccato: il piccolo mondo dei protagonisti, molto presenti e tutti gli altri, molto assenti. Solo decifit di informazione? Speriamo.

Solitudine e compagnia, in vita e in morte

Ma stando a quello che si sa, si deve notare che i legami che rendono bella la vita possono aiutare a vivere anche bene la morte. Non si vive bene da soli e si muore malissimo da soli. È troppo poco chiedere allo Stato di aiutare a morire. È molto più importante chiedere allo Stato e alla gente con cui si è condiviso tutto di condividere anche quei momenti tragici. E questo vale sia per chi decide di fare il passo, sia per chi decide, nonostante tutto, di vivere anche la malattia, anche la più estrema. Ciò di cui spesso si sente la mancanza, infatti, non è tanto la libertà di morire, ma la libertà di vivere, quando è difficile vivere.