C’era una volta la Quaresima: dai riti della società contadina ai «digiuni dalla televisione» degli anni Settanta

Foto: Gianvittorio Frau

«Quaresima come mortificazione e penitenza», «Quaresima come primavera contro l’inverno del peccato», «Quaresima come conversione». Sono alcuni atteggiamenti che caratterizzavano il tempo quaresimale nelle parrocchie bergamasche del recente passato, almeno fino agli anni Settanta del Novecento. Generalmente, oltre all’insistenza sulla partecipazione alle Messe feriali e festive, la Quaresima prevedeva funzioni e riti serali con Rosario, predicazione, benedizione eucaristica e Via Crucis il venerdì. I temi principe della predicazione erano i Novissimi (morte, giudizio, Inferno, Paradiso) e la fragilità umana davanti alla morte, presentata come evento terribile per il peccatore. A partire dagli anni Cinquanta-Sessanta, in coincidenza con lo sgretolarsi della civiltà rurale, la predicazione insisteva sugli obblighi del tempo quaresimale (Confessione, Via Crucis, penitenza, magro e digiuno, elemosina ai poveri) e contro i nuovi vizi della società, come cinema immorale, divertimenti sconvenienti, moda femminile, osterie che allontanavano dalla parrocchia, Carnevale che proseguiva anche in Quaresima e perciò distraeva i fedeli dai loro doveri e dai riti religiosi: «L’esagerato divertimento — scriveva un parroco cittadino — ha causato un pigro inizio della Quaresima. In chiesa ho visto molte maschere e pochi volti». «Il Carnevale — aggiungeva un parroco scalvino — è la festa del diavolo, la negazione dello spirito cristiano e di tutte le più sublimi virtù». Ricorrente l’idealizzazione delle Quaresime del passato, considerate più vissute di quelle presenti. Ricorrente l’invito a pregare per papa Pio XII, sottoposto a tanti attacchi, e per le Chiese perseguitate nell’Est europeo, mentre la propaganda comunista affermava falsamente che in quelle nazioni regnava la libertà religiosa.

Per una ripresentazione più teologica e pastorale, non priva di unilateralità, bisogna attendere gli anni Settanta quando gli sconvolgimenti sociali, economici e culturali avevano palesi effetti sul tessuto religioso locale. Il tempo quaresimale era presentato come «periodo eccezionale» di conversione, rinnovamento della vita cristiana, ritorno alla Parola di Dio, testimonianza cristiana convinta e attenzione alle nuove povertà. «Come gli israeliti — diceva un parroco cittadino — il popolo di Dio è sempre tentato da idolatria, sfruttamento del fratello, pigrizia. Perciò, se è davvero fedele a Cristo, in Quaresima il popolo di Dio è chiamato non a lavarsi le mani, ma a mettersi in un cammino di conversione». «Il tempo quaresimale — affermava lo stesso parroco — è chiamata personale di Dio e risposta personale a Dio e al prossimo: Dio non chiama la massa, ma interpella ognuno, come ha fatto con Abramo e con Caino». Gli strali dell’epoca erano indirizzati soprattutto sul nuovo fenomeno del consumismo, che allontanava l’uomo da Dio e dal fratello. Tra le nuove penitenze veniva proposto «il digiuno dall’invadente televisione», per riscoprire il dialogo nelle famiglie e anche momenti di silenzio personale e preghiera.